Fabio Cavallari
La bioetica non nasce quando si firma un consenso informato. Nasce prima. Quando si abbassa la luce nella stanza di un reparto. Quando un’infermiera spegne il televisore rimasto acceso tutta la notte e resta qualche istante in silenzio, davanti a un corpo che non risponde. Lì. Lì comincia la bioetica. Quando non c’è scelta, né decisione, né parola. Quando la tecnica ha già detto tutto quello che poteva dire e resta solo l’umano, o la sua assenza. Quando il corpo non chiede nulla ma continua a esistere. E quel semplice esistere mette a nudo tutti.
Oggi la bioetica si presenta spesso come un’architettura elegante di dilemmi: eutanasia, aborto, fecondazione assistita, sperimentazione. Si discute, si argomenta, si mettono sul tavolo i pro e i contro. Le università stilano codici. I comitati decidono. I giornali titolano. Ma la vera bioetica, quella che dovrebbe restare incollata alla parola “vita”, accade sempre altrove. Non si siede ai tavoli, non si fa pagare a ore, non cerca la correttezza. Accade nei luoghi storti della medicina. Nelle stanze dove i protocolli tacciono. Dove la statistica si inchina all’unico. Accade quando una donna rifiuta un accanimento che la farebbe vivere qualche giorno in più ma la renderebbe meno madre ai suoi figli. Accade quando un medico, pur sapendo cosa dovrebbe fare, fa un passo indietro e chiede: “Lei cosa sente che è giusto per sé?” Accade quando si sceglie di non decidere subito, perché il tempo della cura non è quello della legge.
La bioetica non è la scienza del giusto. È l’arte del rischio. Perché ogni volta che si ha a che fare con la vita, non c’è garanzia. Non c’è mai un esito certo. Eppure serve qualcuno che stia lì, nel mezzo. Non per fare da giudice, ma da testimone. Uno che dica: “Ti vedo. Anche se non puoi parlare. Anche se non puoi opporre una volontà. Anche se non sei utile, produttivo, nemmeno riconoscibile come persona da chi fa le leggi.” Oppure no. Magari non serve nessuno. Ma se nessuno c’è, qualcosa muore.

C’è un ragazzo, in stato vegetativo da dieci anni. La madre gli parla ogni giorno. Non crede che lui possa sentirla, ma continua a farlo. Un medico una volta le ha detto: “Signora, lei lo fa per sé.” E lei ha risposto: “Sì. E per lui. Perché è questo che ci tiene umani. Il fatto che io, che posso scegliere, scelgo di esserci.” Questa è bioetica. Non una teoria sulla coscienza. Ma una prassi dell’appartenenza. Non un articolo su “quando la vita comincia o finisce”, ma un atto che riconosce che la vita, a volte, resiste. Resiste senza forma, senza bellezza, senza parola. Eppure resta. E quel restare chiede una postura.
Non c’è bioetica senza corpo. E non c’è corpo senza qualcuno che resti lì, anche quando è inutile. E allora: possiamo ancora parlare di bioetica senza passare prima dal corpo di chi tace?