Emanuela Vezzoli
Quanto deve Emily Dickinson alla Bibbia, quanto Emily Dickinson è Bibbia (oltre a essere – infinitamente – altro)?
Le Sacre Scritture erano parte integrante di tutta la cultura del New England del 1800, al punto che parrebbe persino banale annoverarle tra le fonti della poetessa di Amherst. Ogni sabato mattina, Emily aveva diversi esercizi da svolgere sul testo sacro e tutta la sua vita gravitava attorno a funzioni, sermoni, preghiere e commenti biblici. Capitava inoltre spesso che, affascinata da una predica o dal carisma di un ministro, ella ritrovasse nei Vangeli o nell’Antico Testamento storie di eroi da proteggere, da narrare sotto una nuova luce (slant, obliqua), con i quali identificarsi. La Bibbia era quindi, per lei, vivida presenza culturale, spirituale e sentimentale, fonte di piacevole intrattenimento, non soltanto di apprendimento. Si rifaceva in particolare a Genesi, a Matteo e ad Apocalisse, senza dimenticare San Paolo e Giovanni, i cui insegnamenti (cruciali per il suo esistere, così come per il suo scrivere), ella prendeva alla lettera:

«1 In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. / 14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.» (Giovanni 1, 1/14).
«Una parola fatta carne è raramente / e timorosamente consumata / e forse resta ignota / ma se non sono in errore / ciascuno di noi ha gustato / con estasi furtiva / giusto il cibo assegnato / alla nostra forza specifica – / Una parola che respiri netta / non ha il potere di morire – / compatta come lo spirito / con esso può spirare – / “Si fece carne e abitò fra noi”: / può esservi condiscendenza / come questo consenso della lingua / questa amata filologia?» (J1651, tr. it. di M. Bagicalupo).
Giocava senza sosta con i testi sacri, nominava di continuo personaggi e avvenimenti, persino quando parlava di malanni di stagione, intrisa di espressioni bibliche, innervata di quelle narrazioni: «Ho avuto un forte raffreddore per qualche giorno e posso capirti, anche se mi sono salvata dal torcicollo. Credo che tu debba appartenere alla tribù di Israele visto che, come sai, nella bibbia il profeta li chiama una generazione dal collo rigido.»[2] (lettera J9, ad Abiah Root, 12 gennaio 1846)[3].

A casa Dickinson la Bibbia era fondamentale durante le funzioni religiose tanto quanto nel quotidiano. Edward, il padre di Emily, ne leggeva un capitolo al giorno e le Sacre Scritture erano sempre a disposizione di tutti per qualsiasi necessità. Nella Homestead ce n’erano almeno diciannove copie: una per ogni membro della famiglia e per chiunque fosse passato in visita. Quella di Emily era un’edizione del 1843 della King James Bible.
Nessun altro libro influenzò lei e la sua poesia in maniera così radicata: mescolò passi e precetti, vi attinse liberamente sin dalla prima adolescenza e mai l’abbandonò, ecceduta, parlata da quel linguaggio, da quel raccontare, la cui ricchezza la soddisfaceva in termini di visione, di emozione e di risposte (anche sulla Fine).
Emily viveva insomma in un perenne stato di meraviglia e di speranza che proprio il testo sacro le infondeva. Lo sfruttò per ogni bisogno: pio o blasfemo, triste o gaio, serio o irriverente, citandolo, alludendovi e confrontandovisi apertamente (per riprendere le tre grandi categorie che Del Sarto ritrova nelle modalità con cui la parola di Dio si riflette nella poesia di Turoldo)[4].
La Dickinson fu unica nel suo appropriarsi delle Sacre Scritture attraverso la fusione, nei suoi rimandi, di domestico e di divino. Amava «far scorrere quelle grandi frasi sotto la lingua» (Sewall, p. 698)[5] demistificandole, rendendo i personaggi sacri i propri protagonisti terreni e distillando scene e scenari tra versi e prosa.
Grandi sono le somiglianze tra la Torah e la poesia di Emily (Ellis)[6]. Prima fra tutte la consonanza degli artifici nella rappresentazione dell’incontro ineffabile tra l’umano-finito e il divino-infinito: paradossi, giochi di parole, cambi di prospettiva e ambiguità sono i principali espedienti che Dickinson condivide con il linguaggio biblico[7].
Il testo sacro ha lasciato diversi doni a Emily e, in senso ampio, a chiunque:
il primo (Wolff, p. 72)[8] è la struttura narrativa dell’intero racconto, che dice di un perdono finale nonostante gli errori commessi nella vita: così come il popolo eletto da Dio cadde più volte fuori dalla verità e fu comunque redento, allo stesso modo, questo meccanismo potrebbe estendersi (di certo lo fece per i congregazionalisti) a tutte le vicende umane, presenti e future.
Il secondo riguarda invece la possibilità di eroismo che si trova nella logica biblica del “tipo-antitipo”: l’evento precedente (Antico Testamento) che prefigura l’evento successivo (Nuovo Testamento). Abramo che è disposto a sacrificare suo figlio a Dio si riflette nella volontà di Dio di sacrificare suo figlio per tutti noi. Tale prefigurazione potrebbe essere applicata non solo ai grandi eventi, ma anche e più spesso all’esperienza personale di ogni cristiano. (Sotto questa luce, ogni abitante del New England poteva essere un Abramo, un Salomone o un Ismaele e l’eroismo era alla portata di tutti).
Il terzo è, infine, il linguaggio. Ogni parola delle Sacre Scritture non ha mai perso, infatti, il suo potere mitico: “pane” e “vino”, ad esempio, significano “corpo” e “sangue”, dall’immaginario della Cena del Signore; “deserto” indica “uno stato di profonda e inconsolabile disperazione” (Mosè che visse con il suo popolo per quarant’anni senza raggiungere, alla fine, la Terra Promessa).
Emily, consapevole, fece propri tutti questi lasciti, tanto a livello umano, quanto letterario.
[1] Tratto e adattato dalla mia sezione Poco ad Est del Giordano, in Queste nostre parole, Del Sarto, Davoli, Santi, Vezzoli, Industria&Letteratura, 2024.
[2] Si veda Deuteronomio 9,6: «Sappi dunque che non a causa della tua giustizia il Signore tuo Dio ti dà il possesso di questo fertile paese; anzi tu sei un popolo di dura cervice.». Nel versetto della King James Version per “di dura cervice” si legge “stiffnecked” ed Emily, in questa lettera, usa proprio l’espressione “a stiff necked generation”.
[3] Considerando, anche solo a livello meramente numerico, le citazioni bibliche riconosciute nella sua produzione: centododici sono i riferimenti all’Antico Testamento – in gran parte alla Genesi – e duecentoventi al Nuovo Testamento – soprattutto a Matteo, Giovanni e all’Apocalisse.
[4] Del Sarto G., Davoli F., Santi F., Vezzoli E., Queste nostre parole, Industria&Letteratura, Massa, 2024, p. 6.
[5] Sewall, B. Richard, The Life of Emily Dickinson, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 1974.
[6] Ellis, R. S., “A little East of Jordan”: Human – Divine encounter in Dickinson and the Hebrew Bible”, in “The Emily Dickinson Journal”, Vol. 8, No.1, Spring 1999, 36-58.
[7] Si tratta, in effetti, di tutti gli esiti naturali delle strutture della lingua ebraica, la quale si basa su radici consonantiche di tre lettere. Queste radici, se disposte con vocalizzazioni diverse, danno significati diversi. Poiché nella sua versione originale la Torah era scritta a mano e non conteneva né vocali né punteggiatura, il lettore era libero di proporre diverse letture, portando alla luce nuove implicazioni e significati, perché, secondo i rabbini, i giochi di parole e le interpretazioni erano traccia del respiro di Dio dentro il testo. Allo stesso modo, Emily esplorò la lingua inglese, così come quella biblica, giocando, smontando e ricostruendo, sfidando le certezze dottrinali e le interpretazioni canoniche.
[8] Wolff, Griffin C., Emily Dickinson, Perseus Books, Reading, Massachusetts, 1988.