25 Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26 Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27 Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28 Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». 29 Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30 Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31 Allora Giacobbe chiamò quel luogo Peniel «Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». 32 Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Peniel e zoppicava all’anca. 33 Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.

Genesi, 32: 25-33

Poco ad est del Giordano,

narrano gli evangelisti,

un atleta ed un angelo

lottarono aspramente –

finché il mattino toccò la montagna –

e a Giacobbe, più in forze, chiese l’angelo

il permesso di fare colazione –

per ritornare alla contesa poi –

Ma non acconsentì, Giacobbe astuto!

“Di qui non te ne andrai

se non mi benedici – Sconosciuto!”

E appena accettato ciò –

lievi ondeggiarono sui colli

di Peniél i velli d’argento,

e lo stupefatto atleta riconobbe

d’avere vinto nell’agone Dio!

Emily Dickinson, J59, tr. it. di S. Raffo

Gustave Dorè, Lotta di Giacobbe con Dio

Prendendo le mosse dal nostro precedente articolo[2] (sulle modalità con le quali Emily Dickinson abbia rimaneggiato il testo sacro in un atto quasi midrashico, di esegesi e di riscrittura, di collegamento e di riempimento dei vuoti), analizziamo ora la poesia J59[3]: componimento chiave, esempio lampante di quanto la poetessa di Amherst avesse a cuore i personaggi biblici, tanto da renderli protagonisti del proprio scrivere, da recuperarne le gesta, da riscattarne o capovolgerne il senso.

I versi si riferiscono all’episodio di Genesi in cui Giacobbe lotta contro Dio facendosi emblema tanto del certame letterario e di vita della poetessa contro i principi dell’ortodossia, quanto della possibilità di eroismo che la Bibbia ha lasciato in dono all’umanità tutta. Grazie alla sfida contro quell’uomo che poco dopo si sarebbe rivelato divinità, Giacobbe ottiene infatti la promessa per i suoi figli di poter godere di ricchezza, di regalità e di pace: ecco perché egli appare come l’eroe prototipico per ogni fedele che spera nella redenzione finale. Come spiega accuratamente Wolff (p. 86)[4], ogni buon credente deve – a un certo punto – lottare contro Dio, lo Spirito Santo, l’Angelo dell’Alleanza e contro la propria coscienza per raggiungere la purezza della conversione più intima. Deve insomma affrontare un corpo a corpo da cui – sull’esempio di Giacobbe – non solo uscirà vivo, ma addirittura vincitore, benedetto nel nome del vero cristianesimo.

Tuttavia, nello scontro, Dio sa rivelare la propria crudeltà, vuole affossare Giacobbe con un tocco tutt’altro che benefico, anzi, platealmente lesivo. Lo stesso meccanismo ritorna poi, pressoché identico, nella poesia J497 (tr. it. di S. Raffo), in particolare nell’azione di Cristo:

«Egli mise alla prova la mia fede – / ma la trovò arrendevole? / La mia solida fede agitò forte – / forse ch’essa – cedette? / Si scagliò contro lei – / ma non l’infranse. / La torturò con sadica lentezza – / non un nervo si sciolse! / D’angoscia mi contorse – / di lui non dubitai – / per quanto non dicesse / a causa di qual colpa – / Mi pugnalò – / il suo dolce perdono – / Gesù sono il tuo piccolo “Giovanni”! / Non mi conosci – tu?»

Anche in questo caso, il medesimo schema: un essere umano è posto contro una creatura celeste, la quale desidera che l’uomo soccomba. Giovanni, però, benché trafitto, non resta ferito né nel corpo, né nell’anima («Non un nervo si sciolse!») e come Giacobbe implora per ricevere qualcosa, che in questo caso non è la benedizione, bensì il perdono.

In entrambe le scene, la divinità tormenta dunque l’uomo, ma se nel primo episodio Giacobbe è il vincitore indiscusso (anche se lacerato, ottiene la benedizione), nei versi successivi Giovanni appare come un essere indifeso, pur non essendolo. Egli, infatti, non solo non viene scalfito dall’ingiusta tortura, ma addirittura perdona o giustifica Cristo.

Nelle due occasioni, comunque, l’uomo ha la meglio sul divino. Proprio come Emily.

Ellis[5] percorre con attenzione J59 concentrandosi sugli aspetti peculiari del confronto umano-divino portato in scena dalla Dickinson.

In primo luogo, egli considera il gioco di prospettive di Emily: quella gerarchica, al di sopra dell’azione (nei versi 1 e 2 siamo osservatori esterni alla scena che si svolge a Peniel) e quella intima, intrecciata agli eventi, che emerge gradualmente con l’avvicinarsi ai personaggi (versi 4, 5 e seguenti).

In seconda battuta si sofferma sulle similarità tra il linguaggio dickinsoniano e quello biblico (nei giochi di parole, nei paradossi e nelle ambiguità), e sulla differenza che intercorre tra le due narrazioni (Emily, nell’evocare la storia, la cancella – almeno in parte: non menziona il nuovo nome di Giacobbe – Israele, non dà una descrizione fisica del conflitto, ma insinua solo un’idea del tocco divino che ferisce, al verso 5, e parla di un Angelo, non di Dio).

Proprio nella sua imprecisione (intenzionale o meno), nel suo prendersi libertà nei confronti dell’originale, Emily esibisce una profonda conoscenza di quelle storie e, parallelamente, un’astuta dimestichezza nel manipolarle a proprio piacimento, esattamente come fa nel poetare, con il metro (prendendo e smontando quello dell’inno) e con il tono (parodiando quello dei catechismi che la istruirono).

Ciò che è più importante, tuttavia, è la rilevanza di questa poesia, sia per la comunità congregazionalista dell’epoca, che per Emily. Infatti, pur essendo paradigmatica per tutti i fedeli perché quella di Giacobbe è, si è detto, la lotta di ciascuno verso il traguardo della conversione personale, nella prospettiva della Dickinson risulta ancor più significativa: anzitutto, la scena dà conto della sua personalissima resistenza contro i dettami religiosi imposti (la sua era infatti una spiritualità più libera, naturale, lontana dal dogma); in secondo luogo, mostra i modi in cui Dickinson attinge dalla Bibbia diventando persino narrativa nei suoi versi; infine, simboleggia la sua affermazione nella sfida poetico-divina della creazione.

Ripensando a Domanda/Risposta n. 9 dello Westminster Shorter Catechism (su cui la poetessa studiò) e alle risposte poetiche che ella parve darvi (D.: Qual è l’opera della creazione? R.: L’opera della creazione […] Emily: «La creazione non è che lo sgambetto / della sua autorità –», J724; è che Dio fa del nulla tutte le cose, per mezzo della parola della sua potenza Emily: «Fu questo un poeta – colui che distilla / un senso sorprendente da ordinari / significati, essenze così immense / da specie familiari», J448), il parallelismo risulta chiaro: Emily sfida il Dio biblico, esattamente come fa Giacobbe, ma è ancora più intrepida perché, se l’uomo veterotestamentario non sarà consapevole di essere in contrasto con il Padre fino alla fine della lotta, Emily – al contrario – sa perfettamente con chi ha a che fare e che può agire come Lui, plasmando qualcosa di straordinario dal nulla, solo scrivendo, semplicemente attraverso il sacro potere della Parola.

Il poeta è dunque Creatore, Emily è Dio e Giacobbe diviene colui che benedice l’Angelo, in una lettera a Higginson, illuminato uomo politico, soldato e pastore unionista: «Audacia della beatitudine, disse Giacobbe all’Angelo “Non ti lascerò andare se non avrò benedetto” – Pugile e poeta, Giacobbe aveva ragione –» (lettera J1042, a T. W. Higginson, primavera 1886).


[1] Tratto e adattato dalla mia sezione Poco ad Est del Giordano, in Queste nostre parole, Del Sarto, Davoli, Santi, Vezzoli, Industria&Letteratura, 2024.

[2] https://www.ticinolive.ch/2025/07/26/quanta-bibbia-troviamo-nella-poesia-di-emily-dickinson-e-in-quali-modalita1/

[3] In: E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano, 1997.

[4] G.C. Wolff, Emily Dickinson, Perseus Books, Reading, Massachusetts, 1988.

[5] R.S. Ellis, “A little East of Jordan”: Human – Divine encounter in Dickinson and the Hebrew Bible, in “The Emily Dickinson Journal”, Vol. 8, No.1, Spring 1999, 36-58.