Liliane Tami
I lanzichenecchi uccisero 45 mila civili in 8 giorni e arrestarono il Papa. Fu un massacro tremendo.
ROMA – All’alba del 6 maggio 1527, Roma si svegliò davanti a un incubo che avrebbe cancellato per sempre il volto fiero della Città Eterna. Migliaia di lanzichenecchi tedeschi, mercenari al soldo dell’imperatore Carlo V, piombarono sulle mura della città insieme a contingenti spagnoli e italiani. Erano stanchi, affamati, senza paga da mesi. Molti di loro erano luterani e vedevano nel Papa il nemico supremo da abbattere.
Quello che iniziò come un assalto militare si trasformò subito in una carneficina. Le strade divennero corsi di sangue, le chiese teatri di violenze inimmaginabili: altari rovesciati, ostie consacrate gettate a terra o arrostite per dileggio, reliquie frantumate, tombe di santi violate. I soldati si accanivano con una ferocia da bestie: torture, stupri, mutilazioni. Nessuno era risparmiato, nemmeno i bambini.
L’unico argine a quella furia fu la Guardia Svizzera Pontificia. Centoquarantasette uomini sacrificarono la vita per permettere a Papa Clemente VII di rifugiarsi a Castel Sant’Angelo, dove rimase assediato per mesi. Ma il loro eroismo non bastò a salvare la città.

Per otto giorni Roma fu consegnata alla violenza e alla fame. Poi iniziò una lenta agonia: peste, carestia e occupazione militare per quasi un anno. La popolazione crollò da oltre 50 mila anime a meno di 10 mila.
Quel sacco segnò la fine del Rinascimento romano. I lanzichenecchi, che fino ad allora erano stati temuti soldati di ventura, da quel giorno divennero il simbolo della brutalità cieca e dell’odio che la politica e la religione possono scatenare. Roma, umiliata e ferita, non dimenticò mai quella notte.
