Nel cuore gelido della Guerra Fredda, quando il mondo viveva sospeso tra due imperi armati fino ai denti, un uomo decise di sfidare la macchina implacabile dell’Unione Sovietica.
Si chiamava Oleg Vladimirovič Penkovskij, colonnello del GRU, il servizio segreto militare di Mosca. Figlio di un ufficiale zarista caduto nella guerra civile, Penkovskij aveva fatto carriera nell’esercito sovietico con disciplina e ambizione. Ma dietro la divisa impeccabile e il volto impassibile, cresceva in lui un senso di disgusto verso la menzogna e la paura che dominavano il suo Paese.
Alla fine degli anni Cinquanta, Penkovskij maturò una decisione che, in URSS, equivaleva a una condanna a morte: tradire il regime per servire la verità. Durante una missione all’estero, cercò il contatto con l’Occidente. Il destino volle che lo trovasse in un uomo insospettabile, Greville Wynne, un commerciante britannico che fungeva da copertura per l’MI6. Attraverso Wynne, Penkovskij divenne uno dei più preziosi informatori mai reclutati dall’intelligence occidentale.
Nei due anni successivi, il colonnello fornì centinaia di fotografie, documenti, rapporti e mappe segrete sull’arsenale sovietico. Con una piccola macchina fotografica nascosta nel suo appartamento di Mosca, riprendeva piani militari, specifiche tecniche dei missili balistici, disposizioni di truppe, persino appunti del Politburo.
Quell’enorme flusso di informazioni permise alla CIA e al MI6 di capire, per la prima volta, quanto fosse realmente vulnerabile l’apparato nucleare sovietico.
Così, quando nell’ottobre del 1962 esplose la crisi dei missili di Cuba, furono proprio i dossier di Penkovskij a dare al presidente John F. Kennedy la certezza che Mosca bluffava: l’URSS non aveva la forza per vincere uno scontro nucleare. Senza di lui, la storia avrebbe potuto imboccare una strada ben più oscura.
Ma ogni spia sa che il proprio tempo è limitato. Nello stesso ottobre del 1962, mentre il mondo osservava i movimenti delle navi sovietiche verso Cuba, il KGB chiuse il cerchio intorno a Penkovskij. Fu arrestato nel suo appartamento, dopo giorni di sorveglianza e sospetti incrociati.
Seguì un processo spettacolare, trasmesso alla televisione sovietica come monito a chiunque osasse sfidare il potere. Penkovskij ascoltò la sentenza — condanna a morte per alto tradimento — con lo stesso controllo con cui aveva vissuto.
Nel maggio del 1963, la sua sorte si compì nel silenzio di una prigione di Mosca. Le fonti ufficiali parlarono di una fucilazione, ma leggende e sussurri raccontarono un’altra storia, più terribile: che fosse stato bruciato vivo in un crematorio, per mostrare a tutti cosa accadeva a chi tradiva la madrepatria.
Di lui, per decenni, non si poté più parlare. Il suo nome fu cancellato dagli archivi, la sua memoria ridotta a un’ombra. Eppure, nell’altra metà del mondo, a Langley e a Londra, il suo volto restò impresso nelle menti di chi sapeva che, forse, grazie a Oleg Penkovskij, la Terza guerra mondiale non era mai cominciata.