Novembre 2025, testimonianza diretta.
Roveredo, Canton Grigioni – È una storia che lascia senza parole e interroga profondamente la coscienza di una comunità.
Un ragazzo ucraino, arrivato in Svizzera insieme alla madre per fuggire dalla guerra, è stato vittima di un terribile episodio di bullismo all’interno di una scuola media del Moesano.
Secondo la testimonianza della madre, il figlio — poco più che adolescente — è stato immobilizzato da cinque compagni che gli hanno ficcato una bottiglia piena d’acqua in bocca, svuotandogliela in gola fino a farlo quasi soffocare.
Una pratica brutale, nota tristemente come waterboarding, una forma di tortura simulata, vietata perfino nei contesti militari.
Il ragazzo si è sentito annegare, ha vomitato ed è rimasto sconvolto.
Per una settimana non ha più avuto la forza né il coraggio di tornare a scuola.

💔Una madre sola, inascoltata
La madre, rifugiata ucraina che non parla italiano, si è rivolta subito alla polizia e alla direzione della scuola. Ha chiesto aiuto, giustizia, protezione per suo figlio.
Ma, secondo quanto riferito, le sue denunce sono cadute nel silenzio.
Nessuna risposta chiara, nessuna sanzione evidente nei confronti dei responsabili.
Un silenzio che pesa come una seconda violenza.
Una madre che ha già conosciuto la paura della guerra, ora costretta ad affrontare l’indifferenza di chi avrebbe dovuto difendere suo figlio.

Un fatto gravissimo
Ciò che è accaduto non è una “ragazzata”, ma un atto di violenza estrema.
Un episodio che richiama tecniche di tortura e che avrebbe potuto avere esiti tragici.
Il bullismo, quando raggiunge questi livelli, diventa abuso fisico e psicologico: un reato, non un semplice conflitto tra studenti.
Eppure, come spesso accade, tutto rischia di venire archiviato sotto il tappeto:
nessuna presa di posizione pubblica, nessun comunicato della scuola, nessun atto visibile di tutela.
Il dovere delle istituzioni
Una comunità civile si riconosce da come protegge i più deboli.
Questo episodio — grave e denunciato ma inascoltato— chiede una risposta immediata da parte delle autorità scolastiche, comunali e cantonali.
Tace la direzione, tace la scuola, tace la politica locale.
Ma il silenzio, in casi come questo, è complicità.
Ogni volta che un ragazzo viene umiliato, ferito o lasciato solo, tutta la società fallisce.
E quando a subire è un figlio di profughi, chi scappa da una guerra per ritrovarsi vittima di violenza nel luogo dove cercava sicurezza, il fallimento è doppio.
Un appello al coraggio
Questo non è un caso isolato: è uno specchio di ciò che accade quando la paura di “disturbare” o “creare scandalo” prevale sul dovere morale di agire.
Serve coraggio — da parte degli insegnanti, dei genitori, dei dirigenti — per dire con chiarezza:
non è accettabile.
Il silenzio non protegge la scuola.
La distrugge.
Questo episodio, se confermato nei suoi dettagli, chiede un’indagine seria, misure immediate e soprattutto un messaggio chiaro: in Svizzera nessuno — tanto meno un ragazzo rifugiato — deve subire violenza nel luogo dove dovrebbe sentirsi al sicuro.