Era una mattina di novembre del 1600 quando, a Dunfermline, in Scozia, nacque un bambino fragile e silenzioso: Carlo Stuart, secondogenito di Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra) e di Anna di Danimarca. Il piccolo Carlo non sembrava destinato a grandi cose: era gracile, balbettava, e tutti gli sguardi erano rivolti al fratello maggiore, Enrico Federico, l’erede al trono. Ma il destino è imprevedibile: Enrico morì giovane, e così, quasi per caso, il destino di un’intera nazione si trovò nelle mani del fratello minore.

Quando Giacomo I morì nel 1625, Carlo salì al trono d’Inghilterra, Scozia e Irlanda. Aveva venticinque anni, un carattere orgoglioso e un’idea altissima della monarchia: per lui, il re era il rappresentante di Dio sulla Terra. Credeva nella “teoria del diritto divino dei re”, secondo la quale l’autorità del sovrano non doveva rendere conto a nessun Parlamento.

Il suo regno, tuttavia, cominciò sotto cattivi auspici. Sposò Enrichetta Maria di Francia, una principessa cattolica: scelta romantica, ma politicamente disastrosa in un’Inghilterra profondamente protestante. Da lì in poi, Carlo si trovò costantemente in conflitto con il Parlamento, che non voleva concedergli denaro per le sue guerre senza avere voce sulle decisioni del re.

Un re senza Parlamento

Frustrato dalle opposizioni, Carlo decise nel 1629 di governare da solo. Per undici anni — il cosiddetto Personal Rule — regnò senza convocare il Parlamento, trovando nuovi modi per tassare i sudditi e mantenere le apparenze di un potere assoluto. Ma sotto la superficie, il malcontento cresceva: molti vedevano in lui un tiranno, altri temevano che volesse restaurare il cattolicesimo.

Quando nel 1637 tentò di imporre in Scozia un nuovo libro di preghiere anglicano, scoppiò una rivolta: la Guerra dei Vescovi. Per finanziare il conflitto, Carlo fu costretto a richiamare il Parlamento nel 1640. Ma invece di sostenerlo, i deputati colsero l’occasione per limitare il potere reale. Le tensioni esplosero.

La guerra civile

Nel 1642 l’Inghilterra si divise. Da una parte i realisti, fedeli al re; dall’altra i parlamentari, guidati da figure come Oliver Cromwell. Per sette anni il paese fu devastato da guerre, carestie e vendette. Carlo era un uomo di fede e di dignità, ma non un abile stratega: i suoi eserciti furono sconfitti, e nel 1646 egli si arrese.

Ma nemmeno allora si arrese del tutto. Mentre era prigioniero, cercò segretamente di allearsi con gli scozzesi per riprendere il potere: un atto che gli costò caro. Dopo una seconda sconfitta nel 1648, il Parlamento, ormai dominato da Cromwell e dai “puritani”, decise che era giunto il momento di fare qualcosa di mai visto nella storia inglese: processare un re.

Il processo e la fine

Nel gennaio del 1649 Carlo fu condotto davanti a un tribunale speciale. Rifiutò di riconoscerne l’autorità: “Io sono il vostro re legittimo”, disse, “e nessun tribunale terreno può giudicarmi.” Ma il verdetto era già scritto. Fu dichiarato colpevole di tradimento contro il popolo d’Inghilterra.

La mattina del 30 gennaio 1649, a Whitehall, il re salì sul patibolo, vestito di nero. Faceva freddo, e temeva che il tremito potesse essere scambiato per paura. “Non è il mio cuore che trema,” disse. Poi, dopo una breve preghiera, posò la testa sul ceppo. Un colpo secco di scure — e il silenzio calò sulla folla.

Un uomo alzò la testa recisa e gridò: “Ecco la testa di un traditore!”
Ma molti, tra la folla, piansero.

Eredità

Con la sua morte, l’Inghilterra divenne una repubblica, guidata da Cromwell: il Commonwealth. Ma il fantasma di Carlo I non scomparve. Nel 1660, con la Restaurazione della monarchia e la salita al trono di suo figlio, Carlo II, il re martire venne rivalutato. La Chiesa anglicana lo commemorò persino come santo e martire.

Così finì la storia di Carlo I, il re che volle regnare da solo — e morì per averlo fatto.