Norimberga, 15 ottobre 1946 — ore 22:30
La prigione di Norimberga taceva, interrotta solo dal passo cadenzato delle guardie americane. Le luci al neon rimanevano accese tutta la notte, come a ricordare ai prigionieri che non c’erano più ombre dove nascondersi.
Hermann Göring, detenuto nella cella n. 5, era ancora vestito ordinatamente: camicia bianca, pantaloni della divisa priva di mostrine. Non dava segni d’agitazione. Poco prima, aveva chiesto a un secondino un bicchiere d’acqua e un libro. Sul tavolo c’era una Bibbia aperta al Vangelo di Giovanni, un pacchetto di sigarette, e una fotografia della moglie Emmy e della figlia Edda.
Dalle relazioni successive del carceriere Herbert Stivers e dell’ufficiale di guardia Jack Wheelis, risulta che Göring aveva trascorso la giornata scrivendo lettere d’addio: una alla famiglia, una al generale Eisenhower, e una al comandante delle prigioni di Norimberga, Burton C. Andrus. In quest’ultima, ringraziava per il trattamento ricevuto e spiegava — con la consueta teatralità — che non avrebbe mai concesso ai vincitori lo spettacolo della sua impiccagione.
Alle 22:40 circa, la guardia gli consegnò il consueto bicchiere d’acqua per la notte. Göring salutò con cortesia. Non mostrava nervosismo. Era stato visitato quel giorno dal cappellano americano, il reverendo Gerecke, a cui aveva parlato serenamente della morte, insistendo sul fatto di essersi “riconciliato con Dio”.
Nessuno notò nulla di anomalo quando, poco dopo le 22:45, si sdraiò sul letto.
Ore 22:55
Un tonfo sordo richiamò l’attenzione della guardia di ronda. Göring giaceva a terra, irrigidito, la pelle già livida. Nella mano stringeva il fodero del cuscino, forse nel tentativo di trattenere il dolore. Gli ufficiali accorsero, ma non c’era più nulla da fare: un odore acre di mandorle amare — tipico del cianuro di potassio — saturava la cella.
Sul comodino, accanto al bicchiere vuoto, fu trovata una piccola capsula di vetro spezzata. L’autopsia successiva confermò l’avvelenamento da cianuro. Come il veleno fosse entrato nella cella rimase per giorni un mistero: più tardi, si scoprì che Göring aveva nascosto tre capsule, una delle quali cucita all’interno del rivestimento metallico del suo necessario da barba.
Ore 23:15
Il generale Andrus arrivò di corsa, seguito dai medici militari. Il corpo di Göring fu rimosso e la cella sigillata. Il maresciallo del Reich, condannato a morte per crimini di guerra e contro l’umanità, era riuscito nell’ultimo atto di controllo che poteva esercitare: decidere come morire.
L’esecuzione per impiccagione, prevista per l’alba insieme agli altri gerarchi, fu annullata. Sul registro dei prigionieri, accanto al suo nome, il medico scrisse:
“Deceduto per avvelenamento da acido prussico (cianuro) — ore 22:45–22:50.”
Epilogo
Il giorno dopo, il corpo fu mostrato ai giornalisti e poi cremato nel cimitero di Monaco; le ceneri disperse nel fiume Isar, per evitare ogni forma di culto o sepoltura.
Nessun funerale, nessuna bandiera. Solo la fine burocratica di un uomo che aveva tenuto in pugno la Germania e che, fino all’ultimo, aveva cercato di dominare anche la propria morte.