Il sindaco di Genova, Silvia Salis del PD, ha presentato il 25 novembre un progetto di “educazione sessuale e affettiva” rivolto ai bambini delle scuole materne, dai 3 ai 6 anni. Questa follia può nuocere gravemente al benessere psicofisico dei bambini.
L’annuncio del Comune di Genova di introdurre un progetto di “educazione affettiva e sessuale” rivolto ai bambini delle scuole dell’infanzia — quindi ai piccoli tra i 3 e i 6 anni — ha provocato immediatamente una forte reazione da parte di molte famiglie. L’iniziativa, presentata durante la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, coinvolgerà quattro scuole per un totale di circa 300 bambini. Ma ciò che per l’amministrazione appare come un intervento educativo, per un numero crescente di genitori rappresenta un superamento del limite.
La preoccupazione riguarda soprattutto l’età estremamente bassa del pubblico a cui le attività sono rivolte. A tre anni un bambino è nella fase in cui scopre il mondo attraverso il gioco, la fantasia e le relazioni primarie; non possiede ancora gli strumenti cognitivi per filtrare contenuti complessi, né per distinguere concetti identitari, culturali o politici. È proprio per questo che molte famiglie ritengono inaccettabile l’introduzione precoce di tematiche che, seppur presentate come iniziative per il “rispetto” e la “parità”, rischiano di inserire nella scuola dell’infanzia contenuti che appartengono al dibattito adulto, non al percorso naturale di crescita dei più piccoli.
Il Comune, negli ultimi mesi, ha già investito oltre 150.000 euro per consulenze relative alle “politiche LGBT”, un segnale che indica una chiara direzione ideologica. Preoccupa l’assenza di un coinvolgimento preliminare delle famiglie e la mancanza del consenso informato, previsto dalla normativa nazionale per ogni attività che supera l’offerta formativa ordinaria. Per questo sono già partite segnalazioni formali all’Ufficio scolastico regionale della Liguria: l’obiettivo è ricordare che la scuola non può sostituirsi ai genitori nelle scelte educative più delicate, soprattutto quando riguardano l’identità e l’intimità dei bambini.

Il punto centrale non è negare l’importanza del rispetto e della prevenzione della violenza, temi che appartengono da sempre all’educazione e che nessuno mette in discussione. La domanda è un’altra: quale età è adeguata per affrontare certi argomenti? E, soprattutto, chi decide?
Per molti cittadini, lo Stato e i Comuni possono proporre percorsi, ma la responsabilità primaria dell’educazione affettiva e identitaria dei bambini appartiene alla famiglia. Intervenire senza consultare i genitori rischia di generare sfiducia e conflitto, oltre a creare un precedente pericoloso: quello di una scuola che non collabora, ma impone.
La discussione non accenna a placarsi e, probabilmente, segnerà una linea di frattura importante nel dibattito nazionale. Quello che è certo è che le famiglie chiedono una cosa semplice ma fondamentale: essere informate e avere voce in capitolo. Nessuno contesta l’importanza del rispetto reciproco e della lotta alla violenza; ciò che si contesta è l’uso di questi temi per introdurre in modo precoce concetti che i bambini non possono ancora comprendere e che dovrebbero rimanere un ambito protetto, familiare e graduato nel tempo.
Il messaggio che arriva da Genova è chiaro: quando si parla di bambini così piccoli, il principio guida deve essere uno solo — prudenza e trasparenza. La scuola è una comunità educativa; non può funzionare se i genitori vengono esclusi. E ciò che riguarda l’intimità, l’identità, il corpo e la sensibilità dei bambini non può essere deciso unilateralmente da consulenti o regolamenti comunali schierati con la politica del PD. Sono temi che chiedono delicatezza, rispetto e una responsabilità condivisa. Sempre.