È l’autunno del 1314.
Il re Filippo, che nessuno osa più chiamare “uomo” ma solo “maestà”, parte per una battuta di caccia nella foresta di Fontainebleau.
L’aria è fredda, tagliente. Gli alberi sono nudi come lance spoglie.
Il re cavalca in silenzio, con lo sguardo duro, la fronte di pietra. Dietro di lui, i cortigiani parlano sottovoce: nessuno osa ridere, nessuno osa rallentare.
È il Re di ferro, come lo chiamano, l’uomo che ha piegato il papa, distrutto i Templari e ridotto la Francia a un solo volere: il suo.

Ma quella mattina, il silenzio della foresta è diverso.
Filippo sente una pesantezza strana nel corpo, come se un gelo invisibile lo stesse seguendo.
Il cavallo, un destriero giovane e nervoso, scalpita.
All’improvviso — un urlo, uno scarto, un lampo di bianco — il cavallo si impenna, il re perde l’equilibrio, e cade violentemente a terra.

Un gemito, poi nulla.
Quando i servitori accorrono, trovano il re immobile, il volto pallido come marmo, le labbra serrate.
È vivo, ma gli occhi — quegli occhi che nessuno osava guardare — ora fissano il vuoto.


Lo riportano al castello.
Per giorni, Filippo giace sul letto, in silenzio.
Nessuno capisce se soffre, se riflette, se prega.
Ma una notte, un servo racconta di averlo sentito sussurrare un nome:

“Molay…”

Forse un delirio. Forse un ricordo.
Forse la coscienza che finalmente pesa.

Poi, il 29 novembre 1314, il Re di ferro muore.
Senza confessione, senza lacrime, senza un addio.
Solo la pietra e il gelo lo accompagnano.
E nel silenzio del castello, qualcuno mormora:

“Il gran maestro aveva detto la verità.”