La neve cadeva lenta sul Cremlino, come un velo di silenzio che copriva la città. Dentro le mura del palazzo, il piccolo Alessio correva nei corridoi bui, cercando sua madre. Evdokija Lopuchina lo sollevò tra le braccia e gli sussurrò all’orecchio:
— Tuo padre è tornato da San Pietroburgo. Devi comportarti bene, figlio mio.
Il bambino annuì, ma quando vide entrare Pietro, alto, con lo sguardo duro e le mani callose da carpentiere, si ritrasse istintivamente. Lo zar lo fissò un istante.
— È questo mio erede? — mormorò, deluso. — Un ragazzo che trema come una foglia?
Da quel giorno, tra padre e figlio non ci fu mai pace. Pietro il Grande amava il ferro, il mare, la scienza e il rumore dei martelli nei cantieri di San Pietroburgo; Alessio amava i libri, le preghiere, la quiete delle chiese. Quando lo zar partì per l’Europa, lasciandolo a Mosca, il ragazzo trovò conforto solo nella religione e nella nostalgia.

Gli anni passarono, e l’ombra del padre rimase sempre presente. Quando lo zar tornò, nel pieno delle sue riforme, trovò un figlio che non somigliava affatto a lui.
— Io ho dato un’anima nuova alla Russia — gli gridò Pietro — e tu la vorresti restituire ai monaci e alle vecchie barbe dei boiari! Sei mio sangue, Alessio, ma sembri nato dal ghiaccio!
Alessio chinò il capo, in silenzio. Dentro di sé, la paura era diventata una prigione.
Nel 1711, il padre lo costrinse a sposare Carlotta di Brunswick, una principessa tedesca dolce e fragile. Ma il matrimonio non portò né amore né pace. Carlotta morì giovane, lasciandolo solo con un figlio e un cuore stanco. Accanto a lui rimase solo Eufrosina, una donna semplice, devota, che lo amava senza chiedere nulla.
Fu lei, una sera, a trovarlo seduto accanto alla finestra, guardando la neve che copriva Mosca.
— Che pensi, mio signore? — chiese piano.
— Penso alla libertà — rispose lui. — A un posto dove il nome di mio padre non pesi sul mio respiro.
Poco dopo, fuggì. Attraversò la Polonia, giunse a Vienna, e chiese protezione all’imperatore Carlo VI. Per un po’ credette di aver trovato pace. Ma la Russia lo inseguiva. Pietro mandò ambasciatori, lettere, e infine minacce. “Torna, e sarai perdonato” — gli scrisse.
Eufrosina pianse quando lui accettò di rientrare.
— Non fidarti, Alessio — lo supplicò. — Tuo padre non conosce il perdono.
— È pur sempre mio padre — rispose lui, con voce rotta. — Forse il sangue può più della paura.
Tornò a Mosca nel 1718. Il gelo dell’inverno era lo stesso, ma i volti intorno a lui erano cambiati. Fu arrestato, interrogato, accusato di tradimento. Gli mostrarono lettere, confessioni, nomi.
— Volevi il trono — gli disse Pietro, con gli occhi iniettati di lacrime e collera. — Avresti distrutto tutto ciò che ho costruito!
— Non ho mai voluto il trono, padre — mormorò Alessio. — Ho solo desiderato vivere in pace.
— La pace è per i morti — tagliò corto lo zar.
Le udienze si fecero sempre più crudeli. Gli uomini di Pietro volevano una confessione, e la ottennero. Nelle segrete della fortezza dei Santi Pietro e Paolo, Alessio scrisse le sue ultime parole:
“Non odio mio padre. Ma la Russia che lui sogna non ha posto per me.”
Il 24 giugno 1718, al tramonto, la fortezza fu avvolta da un silenzio irreale. Quando le porte si aprirono, il corpo del principe giaceva immobile su una branda di legno. Ufficialmente, era morto di febbre. Ma chi lo vide giurò di aver notato segni di colpi sul suo corpo.
Pietro, dicono, entrò nella cella e lo guardò a lungo.
— Avrei voluto un erede forte — sussurrò. — Ma tu mi hai lasciato solo.
Poi uscì senza voltarsi.
Fuori, la Neva scorreva lenta, portando via il riflesso del crepuscolo. La Russia entrava nel futuro, ma il prezzo era stato il sangue di un figlio.