Ci sono figure che, nel turbinio della storia, brillano di una luce particolare: non quella effimera dei protagonisti del momento, ma la luce silenziosa, tenace, dei veri servitori dello Stato. Aldo Moro appartiene a questa categoria rara. Uomo di fede cattolica profondamente interiorizzata, intellettuale raffinato, politico del dialogo e della pazienza, egli rappresenta ancora oggi un modello di virtù civili e cristiane. La sua vicenda, conclusasi tragicamente nel 1978, è insieme un monito e un’eredità.
Moro non viveva la religione come un attributo ornamentale della sua identità, ma come il principio ispiratore del proprio modo di essere. La sua fede — meditata, sobria, radicata nella dottrina sociale della Chiesa — informava ogni gesto pubblico. Nelle sue parole, sempre misurate, si avvertiva l’impronta di chi considera la politica un servizio, non un’arena di potere. Egli credeva che ogni persona, anche l’avversario più distante, fosse portatrice di una dignità inviolabile. Da questa convinzione scaturiva la sua capacità di dialogare, di ricucire, di cercare incessantemente una via comune in un’Italia lacerata da tensioni ideologiche.

La mitezza che gli era propria non va confusa con debolezza. Moro era un uomo fermo, dotato di una forza morale che si manifestava nella scelta deliberata della nonviolenza verbale, nella pazienza del confronto, nella tenacia con cui perseguiva l’unità del Paese. Il suo progetto politico — il “compromesso storico” — nasceva dalla consapevolezza che la democrazia non si difende irrigidendo le proprie posizioni, ma includendo, ascoltando, aprendo varchi dove altri vedono solo muri. Il suo stile era quello del costruttore, non del demolitore.
Proprio per questo, nel momento più buio degli anni di piombo, Moro divenne il bersaglio naturale del terrorismo brigatista. L’attacco del 16 marzo 1978, con l’eccidio della sua scorta e il successivo sequestro, rappresentò non solo un’aggressione a un uomo, ma un colpo studiato contro l’idea stessa di democrazia partecipativa. Il terrorismo, accecato dalla sua ideologia totalitaria, vide in Moro l’incarnazione di ciò che più temeva: l’intelligenza politica, la libertà di coscienza, la capacità di dialogare anche dove sembrava impossibile. Nella lunga prigionia, nelle lettere scritte con lucidità e struggente umanità, emerge la grandezza di un uomo che non abdica alla ragione, non cede all’odio, non smarrisce la dignità.
L’assassinio di Aldo Moro, consumatosi dopo cinquantacinque giorni di detenzione in una palazzina anonima, è uno dei momenti più tragici della storia repubblicana. Uccidendo lui, i terroristi vollero colpire il cuore dello Stato, ma non riuscirono a cancellare ciò che Moro rappresentava: la fedeltà alla Costituzione, la superiorità della democrazia sull’ideologia armata, la forza mite di chi crede nella sacralità della vita e nella responsabilità civile.
A distanza di decenni, la sua figura mantiene intatta la sua potenza morale. Aldo Moro continua a ricordarci che la politica non può essere abbandonata ai violenti né ridotta alla gestione del potere; che il dialogo è l’unica strada possibile per una società democratica; che la fede può illuminare la vita pubblica senza trasformarsi in fanatismo. La sua morte ha mostrato l’orrore cui conduce l’odio ideologico, ma la sua vita continua a parlare come un invito alla speranza, alla responsabilità, alla civiltà.
In un’epoca che sembra talvolta smarrire il valore della misura, dell’ascolto e della dignità dell’altro, l’esempio di Aldo Moro resta una bussola preziosa. È la testimonianza di un uomo che, in un tempo di violenza, ha creduto nella forza mite del bene. Ravenna, 2025.
Aldo Moro: il cattolico mite che sfidò l’odio. E l’ombra del terrorismo che tentò di uccidere la democrazia
Ci sono figure che, nel turbinio della storia, brillano di una luce particolare: non quella effimera dei protagonisti del momento, ma la luce silenziosa, tenace, dei veri servitori dello Stato. Aldo Moro appartiene a questa categoria rara. Uomo di fede cattolica profondamente interiorizzata, intellettuale raffinato, politico del dialogo e della pazienza, egli rappresenta ancora oggi un modello di virtù civili e cristiane. La sua vicenda, conclusasi tragicamente nel 1978, è insieme un monito e un’eredità.
Moro non viveva la religione come un attributo ornamentale della sua identità, ma come il principio ispiratore del proprio modo di essere. La sua fede — meditata, sobria, radicata nella dottrina sociale della Chiesa — informava ogni gesto pubblico. Nelle sue parole, sempre misurate, si avvertiva l’impronta di chi considera la politica un servizio, non un’arena di potere. Egli credeva che ogni persona, anche l’avversario più distante, fosse portatrice di una dignità inviolabile. Da questa convinzione scaturiva la sua capacità di dialogare, di ricucire, di cercare incessantemente una via comune in un’Italia lacerata da tensioni ideologiche.
La mitezza che gli era propria non va confusa con debolezza. Moro era un uomo fermo, dotato di una forza morale che si manifestava nella scelta deliberata della nonviolenza verbale, nella pazienza del confronto, nella tenacia con cui perseguiva l’unità del Paese. Il suo progetto politico — il “compromesso storico” — nasceva dalla consapevolezza che la democrazia non si difende irrigidendo le proprie posizioni, ma includendo, ascoltando, aprendo varchi dove altri vedono solo muri. Il suo stile era quello del costruttore, non del demolitore.
Proprio per questo, nel momento più buio degli anni di piombo, Moro divenne il bersaglio naturale del terrorismo brigatista. L’attacco del 16 marzo 1978, con l’eccidio della sua scorta e il successivo sequestro, rappresentò non solo un’aggressione a un uomo, ma un colpo studiato contro l’idea stessa di democrazia partecipativa. Il terrorismo, accecato dalla sua ideologia totalitaria, vide in Moro l’incarnazione di ciò che più temeva: l’intelligenza politica, la libertà di coscienza, la capacità di dialogare anche dove sembrava impossibile. Nella lunga prigionia, nelle lettere scritte con lucidità e struggente umanità, emerge la grandezza di un uomo che non abdica alla ragione, non cede all’odio, non smarrisce la dignità.
L’assassinio di Aldo Moro, consumatosi dopo cinquantacinque giorni di detenzione in una palazzina anonima, è uno dei momenti più tragici della storia repubblicana. Uccidendo lui, i terroristi vollero colpire il cuore dello Stato, ma non riuscirono a cancellare ciò che Moro rappresentava: la fedeltà alla Costituzione, la superiorità della democrazia sull’ideologia armata, la forza mite di chi crede nella sacralità della vita e nella responsabilità civile.
A distanza di decenni, la sua figura mantiene intatta la sua potenza morale. Aldo Moro continua a ricordarci che la politica non può essere abbandonata ai violenti né ridotta alla gestione del potere; che il dialogo è l’unica strada possibile per una società democratica; che la fede può illuminare la vita pubblica senza trasformarsi in fanatismo. La sua morte ha mostrato l’orrore cui conduce l’odio ideologico, ma la sua vita continua a parlare come un invito alla speranza, alla responsabilità, alla civiltà.
In un’epoca che sembra talvolta smarrire il valore della misura, dell’ascolto e della dignità dell’altro, l’esempio di Aldo Moro resta una bussola preziosa. È la testimonianza di un uomo che, in un tempo di violenza, ha creduto nella forza mite del bene.