La vicenda che coinvolge Ursula von der Leyen è diventata, negli ultimi anni, uno dei simboli più discussi del deficit di trasparenza delle istituzioni europee. Al centro non vi è una condanna penale, ma una combinazione inquietante di immunità giuridiche, vuoti normativi e opacità amministrativa che solleva interrogativi profondi sul rapporto tra potere e controllo democratico nell’Unione.
In qualità di Presidente della Commissione europea, von der Leyen gode delle tutele previste dal diritto primario dell’Unione, in particolare dal Protocollo sui privilegi e sulle immunità allegato ai Trattati. Questo regime stabilisce l’inviolabilità dei locali delle istituzioni europee e l’immunità funzionale dei loro membri per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. In termini concreti, ciò significa che le autorità giudiziarie nazionali, incluse quelle belghe, non possono effettuare perquisizioni o sequestri all’interno degli edifici UE senza l’autorizzazione dell’istituzione stessa o della Corte di giustizia dell’Unione. Non si tratta di una protezione personale introdotta ad hoc, ma di una cornice giuridica pensata per garantire l’indipendenza delle istituzioni europee dagli Stati membri.

È in questo contesto che si è sviluppata la polemica sull’eventuale utilizzo di spazi abitativi collegati agli edifici istituzionali. Se un’abitazione è formalmente qualificata come parte dei locali dell’Unione, essa rientra nel regime di inviolabilità previsto dai Trattati; se invece è un’abitazione privata situata sul territorio belga, resta pienamente soggetta alla giurisdizione nazionale. Ad oggi, non esistono prove pubbliche che dimostrino che von der Leyen abbia scelto o predisposto un alloggio con l’intento di sottrarsi a perquisizioni. Tuttavia, il solo fatto che una simile possibilità sia giuridicamente concepibile evidenzia quanto il sistema delle immunità possa apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, come una zona franca del potere.
A rendere la questione ancora più delicata è lo scandalo legato agli SMS scambiati tra von der Leyen e l’amministratore delegato di Pfizer durante le trattative per l’acquisto dei vaccini contro il Covid-19. È accertato che tali messaggi non siano stati conservati negli archivi ufficiali della Commissione e che, di conseguenza, non siano stati messi a disposizione in risposta alle richieste di accesso agli atti. La Mediatore europeo ha qualificato questo comportamento come un caso di cattiva amministrazione, sottolineando che la Commissione avrebbe dovuto valutare se gli SMS rientrassero nella definizione di documenti ufficiali e, in caso affermativo, conservarli.
Qui sta il punto cruciale: non esiste, allo stato attuale, una sentenza che accerti una responsabilità penale, né una prova che la cancellazione o la mancata conservazione dei messaggi sia avvenuta con intento criminoso. Esiste però un problema politico e istituzionale serio. Le decisioni su contratti miliardari, che incidono sulla vita di centinaia di milioni di cittadini, sono state accompagnate da comunicazioni informali non tracciate, sottratte di fatto a ogni controllo successivo. In un sistema che si proclama fondato sulla trasparenza e sullo Stato di diritto, questa zona d’ombra appare difficilmente giustificabile.
Il caso von der Leyen mostra dunque un paradosso dell’Unione europea: un’architettura pensata per proteggere l’indipendenza delle istituzioni rischia di trasformarsi in una barriera alla responsabilità politica. Le immunità, nate per evitare interferenze arbitrarie degli Stati, finiscono per alimentare la percezione di un potere distante, autoreferenziale e poco controllabile. Non è una questione giudiziaria nel senso stretto, ma una questione di fiducia. E senza fiducia, nessuna costruzione politica, nemmeno quella europea, può reggere a lungo.