La scorsa settimana Israele ha ucciso sette civili palestinesi e la Resistenza ha risposto lanciando razzi. Per il governo sionista questa è stata una provocazione inaccettabile e ha dato il via alla rappresaglia in corso nella striscia di Gaza.
Non credo necessitino altre spiegazioni per stabilire chi è il provocatore e chi il provocato, almeno per quelli che non hanno ancora regalato la propria intelligenza alla sequela di bischerate pronunciate dal macellaio di Tel Aviv e dal suo protettore oltre oceano, mister “we can”.
Qualcuno dirà: “Cose risapute da tempo che non avevano certo bisogno delle tragiche conferme di queste ore”.
Certo ma stavolta la mattanza militare ha il sapore della debolezza politica, del dubbio, profondo e inconfessabile per ovvi motivi, che il gigante mediorientale non si senta più così saldo al comando della martoriata regione.
L’arsenale atomico in suo possesso resta terrificante, così come la geometrica potenza del suo esercito, ma l’esito delle guerre, nel lungo periodo, lo determinano (per fortuna) ancora gli uomini dei popoli che hanno conosciuto i lutti, le ingiustizie e le umiliazioni più cocenti. Ed è qui che qualcosa non è più come prima.
Si è indebolita la brigata di dittatorelli arabi che tenevano i piedi in più scarpe e quelli che li hanno sostituiti sentono ancora il fiato della piazza che ha reso possibile la loro ascesa. E’ una piazza inquieta, rumoreggiante e pronta a nuovi ribaltoni se questi ripetessero le ambiguità di un tempo. L’Egitto di piazza Tahrir ha cessato di essere il miglior alleato di Israele oltre la porta di casa, la Turchia ha formalmente interrotto ogni contatto diplomatico con Tel Aviv dopo l’attacco alla sua imbarcazione diretta a Gaza nel giugno 2010 e l’influenza iraniana nella regione va ben oltre le minacce verbali e le sue presunte capacità nucleari.
Tzahal ha perso la sua sicumera anche per fattori interni; nel paese con la stella di Davide ci si deve arrabattare per tirare avanti esattamente come in qualsiasi altra nazione del primo mondo; se poi alle difficoltà economiche si aggiunge il senso di malessere derivato dalle palesi discriminazioni fra coloni, arabi israeliani e cittadini dei territori occupati, si fa presto a rimettere in discussione verità storiche e dichiarazioni ufficiali.
In campo internazionale Iraq e Afghanistan hanno cementato la pietra tombale sull’ idea che le sorti di ogni conflitto siano direttamente proporzionali alle capacità tecnologiche e alla potenza dei propri arsenali. La strada per il sogno palestinese è ovviamente ancora lunga e sanguinosa, ma il popolo senza diritti in casa propria può cominciare a guardare con minore scetticismo un altro sogno, quello di Carlo Magno: “Lasciate che i miei eserciti siano le rocce, gli alberi e i pennuti del cielo”.
Carlo Curti, Lugano