(francesco de maria) L’amico Paolo Camillo Minotti ci manda questo ponderoso articolo, ben argomentato (come sempre) ed equilibrato (come sempre). Colgo l’occasione per ricordare che Ticinolive è aperto a ogni tipo di contributo (e addirittura sollecita qualche articolo filo-americano e filo-UE, dei quali crudelmente manca; forse devo scriverli io?). Aggiungo che, mentre la linea del nostro (deplorevole) governo appare totalmente – vorrei dire: sfacciatamente – sbilanciata, la pubblica opinione sente e si esprime su linee molto diverse. Ne siamo sorpresi? Certo che no.


Nelle scorse settimane, dopo che le proteste di piazza nelle principali città avevano provocato la caduta del Governo ucraino del presidente Janukovitch, si è inasprita la tensione tra Ucraina e Russia la quale è sfociata nel referendum in Crimea (organizzato a tambur battente), che ha sancito la richiesta d’adesione alla Federazione russa, poi subito accolta dal parlamento di quest’ultima. Il timore di alcuni é che l’esempio della Crimea possa venire imitato anche in altre province orientali dell’Ucraina dove sono presenti forti minoranze russe le quali potrebbero determinare maggioranze secessioniste; in tal caso l’Ucraina potrebbe venire «spacchettata» pezzo per pezzo.

Il conflitto interno ucraino e quello russo-ucraino per la Crimea hanno dato la stura anche nel nostro Paese e nei nostri giornali allo scontro di opposte «tifoserie»: i pro-russi e i proucraini (ma sarebbe più esatto dire: gli antiamericani e anti-UE e dunque pro-Putin da una parte, e i pro-UE e dunque anche filo-USA e filo-ucraini dall’altra). Da entrambe le parti sono state fatte delle affermazioni talvolta un pochettino perentorie e il cui fondamento andrebbe perlomeno dimostrato con degli argomenti più stringenti. Si sa che in questi casi i giudizi sono spesso più «di pancia» che di testa, ma la cosa un po’ preoccupa perchè – trattandosi di un conflitto potenzialmente serio e pericoloso – sarebbe consigliabile che non si giocasse con il fuoco (da parte dei responsabili dei vari governi) e che non si soffiasse sul fuoco (da parte delle opinioni pubbliche). Per il governo svizzero ci dovrebbe inoltre essere, come motivo supplementare di cautela, il rispetto della neutralità, anche se essa da parecchi anni è ormai stata relativizzata, resa più «attiva» e forse anche più elastica…..

Ad ogni modo, i paesi dell’UE e gli Stati Uniti d’America, e a fortiori la Svizzera neutrale, avrebbero fatto meglio a offrire da subito una mediazione fra le parti al fine di risolvere pacificamente e consensualmente la diatriba, anziché alimentare le tensioni con condanne unilaterali e minacce di sanzioni economiche contro la Russia di Putin. E questo perché è evidente che la ragione e il torto in questa faccenda non stanno l’una solo da una parte e l’altro tutto sul lato opposto….

Intanto partiamo da un dato inconfutabile: i confini interni dell’ex-Unione Sovietica, che poi sono diventati al momento della sua dissoluzione nel 1991 i confini tra la Federazione russa e le repubbliche ex-sovietiche diventate indipendenti, erano confini talvolta del tutto arbitrari e che comunque erano stati fissati senza consultare le popolazioni interessate. I dirigenti sovietici (in particolare Stalin, ma anche Kruscev a cui si deve la cessione della Crimea all’Ucraina sovietica nel 1954) deliberatamente non fecero coincidere i confini con le linee di demarcazione etniche e linguistiche, per ostacolare eventuali tentativi autonomistici. In tutte le repubbliche sovietiche non russe doveva esserci e c’era una consistente minoranza russa in funzione di controllo e di antidoto alle spinte centrifughe. È la stessa strategia adottata, sia pure su più piccola scala, dal maresciallo Tito in Jugoslavia, dove le sei repubbliche della Federazione jugoslava erano state disegnate artificialmente a tavolino ed erano grossomodo equivalenti, ma la etnia serba prevalente nell’insieme del Paese era presente con consistenti minoranze in quasi tutte le altre 5 repubbliche. Abbiamo poi visto quale fu il risultato di questa ingegneria politico-istituzionale calata dall’alto, al momento della scomparsa di Tito…

Quindi, affermare in tale contesto il principio della assoluta intangibilità delle frontiere è almeno altrettanto imprudente di quanto sarebbe affermare la preminenza assoluta del principio opposto (cioè del diritto alla secessione di ogni sia pur piccola minoranza). Nel caso della Crimea, poi, va detto che essa è abitata in larga maggioranza da russi (in specie dopo che Stalin aveva deportato in Siberia i tatari musulmani che vi risiedevano dai tempi del dominio ottomano, che poi vi tornarono solo parzialmente in seguito), per cui difendere la immodificabilità delle frontiere urta palesemente contro il diritto dei popoli autodeterminazione.

Una posizione sorprendente per la diplomazia occidentale, in specie per quella americana (dov’é infatti finito lo spirito democratico dei Woodrow Wilson, dei Franklin Delano Roosevelt, degli Harry Truman e via elencando ?). Inoltre andrebbe tenuto conto anche della legittima aspirazione della Russia a poter disporre di porti importanti sul Mar Nero; negare questa esigenza non sarebbe infatti equanime, soprattutto tenuto conto che la sovranità ucraina sulla Crimea era già finora limitata da patti consensualmente sottoscritti tra i due Stati e che davano il diritto ai Russi di stazionare truppe sulla penisola fino al 2041. Insomma, si potrebbe anche interpretare i fatti nel seguente modo: al momento del crollo dell’Unione sovietica negli anni ’90 la Russia accettò di lasciare formalmente la penisola all’Ucraina, solo perché l’Ucraina fece quelle concessioni e diede garanzie di voler proseguire la collaborazione politico-economica con la Federazione russa. Venuta meno quella premessa, si può anche capire l’irrigidimento da parte russa.

Vi è poi un aspetto potenzialmente esplosivo: il nuovo governo ucraino sembra(va) uso della lingua russa negli atti ufficiali, accanto alla lingua ucraina. Tenuto conto che la minoranza russa nella Ucraina orientale conta parecchi milioni di persone (e in Crimea rappresenta come detto addirittura una schiacciante maggioranza della popolazione), e che non si tratta per la gran parte di immigrati recenti ma di residenti da generazioni, questi progetti del governo di Kiev vanno altro i residenti russi in Ucraina si possano ritrovare come stranieri in patria: un destino a cui sono già andati incontro i russi nei paesi baltici e in altri paesi ex-sovietici, dove talvolta i russi vengono pesantemente discriminati. Certo questo è il retaggio della storia: dopo secoli di anni di oppressione sovietica questi popoli si prendono la loro rivalsa e enfatizzano con fierezza la loro indipendenza. Ma è evidente che ci vorrebbe un minimo di rispetto dei diritti di tutti i cittadini e delle (talvolta consistenti) minoranze russe.

Nel caso dell’Ucraina, dove peraltro le differenze linguistiche e storicoculturali con i Russi non sono così grandi come per es. nei Paesi baltici o in Georgia, nel 1991 la transizione fu dolce, senza troppi risentimenti anti-russi, e basata sul presupposto della prosecuzione della collaborazione fra le due comunità e fra i due Paesi. Se ora a Kiev prende il sopravvento un corso anche internamente marcatamente anti-russo, è chiaro che si va verso una crisi difficilmente risolvibile.

Bisogna anche tenere conto delle imbricazioni economiche tra Russia e Ucraina; l’industria lavora in parte per la Russia; i rifornimenti energetici vengono dalla Russia; il Paese si trova in una situazione finanziaria di virtuale bancarotta; l’agricoltura, minata negli anni ’30 dallo sterminio dei kulaki e dalla collettivizzazione forzata delle terre, non si è mai del tutto ripresa (mentre fino agli anni ’20 l’Ucraina era considerata il «granaio d’Europa») e anche i governi succedutisi dal 1991 in poi non se ne sono molto preoccupati. In queste condizioni una politica di rottura troppo radicale degli equilibri e di conflitto con la Russia, appare realisticamente come velleitaria e assai azzardata. O forse che i governi occidentali hanno dato affidamenti a Kiev di futuri massicci aiuti? Ma per risollevare l’economia ucraina e sottrarla alla dipendenza russa non basteranno qualche miliardo di aiuti…

Putin = Hitler ?

La ex segretaria di Stato USA Hillary Clinton è arrivata a paragonare Putin a Hitler, mentre il segretario di Stato in carica John Kerry ha paragonato la crisi di Crimea odierna a quella dei Sudeti del 1938, che fu solo un prodromo dello scatenamento della II guerra mondiale da parte di Hitler.

Si tratta di esternazioni un po’ «sopra le righe»; personalmente non siamo dei «tifosi» di Putin, anzi abbiamo diverse riserve sul suo modo di governare la Russia e soprattutto sul suo modo di agire sulla scena internazionale (vedasi per es. la difesa a spada tratta del dittatore siriano Assad). Tuttavia bisognerebbe andarci cauti con le demonizzazioni e con certi paragoni storici. Putin difende in modo tosto e spregiudicato gli interessi russi, ma sembra possedere una certa razionalità e un certo senso della realtà ; non può quindi essere paragonato seriamente a un visionario fanatico e posseduto da un delirio di onnipotenza, com’era Hitler. Semmai va detto che la sua perspicacia gli ha fatto probabilmente capire che il presidente Obama è capace solo di lanciare ultimatum, ai quali però non seguono mai i fatti (vedasi come si è comportato nella crisi siriana); e quindi Putin ne approfitta….

A proposito di Hitler la signora Clinton farebbe bene a riflettere su una recente legge votata dal Parlamento di Israele: per evitare il malvezzo dilagante di dare del nazista nelle dispute quotidiane (che so: al padrone di casa che ti aumenta l’affitto, al marito o alla moglie che ti fa le corna, all’avversario politico che ti dà fastidio, e così via dicendo), la Knesset ha introdotto un divieto di abuso degli infamanti epiteti aventi attinenza con il nazismo; d’ora in poi questi aggettivi non potranno più essere utilizzati se non in un contesto storico o nell’ambito di una riflessione politico-filosofica. Si tratta di una decisione degna di nota e non sprovvista di buon senso; l’abuso porta infatti con sè la banalizzazione del termine.

Con il segretario di Stato John Kerry, che ci sta simpatico perché sembra credere seriamente a certi grandi princìpi, vorremmo invece congratularci: ci fa piacere ch’egli deplori il cedimento a Hitler degli anglo-francesi a Monaco nel settembre 1938; dalle sue esternazioni deduciamo che se egli fosse stato alla guida degli USA in quel tempo, avrebbe incoraggiato Daladier e Chamberlain a resistere alle minacce tedesche e a portare aiuto alla Cecoslovacchia (anziché abbandonarla ignominiosamente come fecero); e forse avrebbe schierato gli USA sin dal 1938 in difesa delle democrazie europee.Purtroppo però l’America del 1938 si guardò invece dall’intervenire tempestivamente per fermare Hitler sin da quel momento, ciò che causò poi sofferenze e costi immani anche agli Stati Uniti.

Ma Putin vuole veramente la guerra?

L’esempio dei Sudeti ci permette però di fare una ulteriore riflessione: quando si discute di conflitti internazionali bisognerebbe sempre distinguere tra i diversi piani dei problemi: un conto sono i conflitti interni ai Paesi, le persecuzioni e discriminazioni a cui certi gruppi possono essere sottoposti (ancorché occorre anche stabilire il grado di gravità di simili situazioni, comparate con altre in altri luoghi); tutt’altro conto sono le minacce militari e strategiche che un determinato conflitto implica (ovvero: il pericolo per la pace internazionale derivante da tale o talaltra fazione o dai rispettivi supporters esterni). Non bisognerebbe mai confondere questi due piani del discorso, se non si vuole ingannare sé stessi e il prossimo.

Nel caso dei Sudeti, la popolazione tedesca di tale regione della Repubblica cecoslovacca aveva sicuramente delle legittime lagnanze e rivendicazioni da far valere, anche se tutto sommato in confronto con altre situazioni in altri paesi le discriminazioni subite dai Sudetendeutsche erano abbastanza blande. Ma il punto non era questo (bisognava essere sciocchi per credere ciò): il punto era che le rivendicazioni dei tedeschi dei Sudeti erano patrocinate e strumentalizzate dalla Germania nazista, che si capiva benissimo che le utilizzava solo come «casus belli». E difatti si vide dopo pochi mesi che la guerra, sventata sulla questione dei Sudeti, scoppiò con altri pretesti (Danzica, ecc.). Quindi: posto che Hitler mirava comunque alla guerra, non ci si sarebbe dovuti curare delle rivendicazioni (anche se in sè e per sè giustificate) di quelle popolazioni. Si doveva parare alla minaccia vera, bloccare Hitler e toglierlo di mezzo.

Quindi il punto da chiarire preliminarmente non è se ci sia o no un diritto delle genti a modificare le frontiere (diritto che peraltro a mio parere nel caso della Crimea ragionevolmente sussiste), ma piuttosto quello di appurare le intenzioni del «grande protettore» che sta dietro alle rivendicazioni locali (in questo caso: le intenzioni di Putin, che ovviamente sta dietro ai russi di Crimea). Ovvero: con Putin è possibile trattare e trovare un compromesso accettabile per tutte le parti? Oppure egli mira a priori allo scontro militare o comunque vi è la forte probabilità che, dopo aver raggiunto una prima soluzione, dopo qualche tempo egli avanzi una seconda e poi una terza rivendicazione e così via? Soprattutto, vi è la garanzia che egli accetti una soluzione negoziata e concordata, escludendo l’opzione militare?

A mio parere è assurdo dare a priori per scontato che la Russia voglia la guerra e si rifiuti a una soluzione negoziata. Se Putin accetta la trattativa, é assolutamente consigliabile da parte dei Paesi occidentali tentare questa via, consigliando anche all’Ucraina di percorrerla in cambio di una garanzia occidentale di non lasciarla sola alla merce’ dell’«Orso russo». È senz’altro meglio un’Ucraina al limite un po’ rimpicciolita, ma indipendente; e soprattutto è meglio arrivare a un compromesso per vie pacifiche e non tramite una guerra. Per tutte le parti in causa (compreso per la credibilità dei Paesi occidentali), i vantaggi di una soluzione pragmatica di compromesso sono largamente prevalenti rispetto al rischio di una «escalation» militare che, pur non voluta forse da nessuna delle parti, potrebbe essere l’esito inevitabile di un mancato dialogo e di una perdurante incomprensione reciproca.

Per tutte le parti in causa (Russia, gli occidentali e anche l’Ucraina) vi é spazio per una reciproca proficua collaborazione economica. L’Occidente ha già abbastanza nemici da cui guardarsi (e la Russia, in prospettiva, pure), che non è proprio il caso di dar luogo a una guerra con una potenza come la Russia, che è sì una competitrice di USA e Europa ma non una loro irriducibile nemica.

Paolo Camillo Minotti