La maggioranza dei nostri giovani s’impegna negli studi, nel volontariato, nello sport. Il disagio giovanile lo si trova in tutti i ceti sociali, nei vari tipi di famiglie, e spesso non è legato alle preoccupazioni per un futuro posto di lavoro. Nel destino di questi giovani “problematici”, la differenza sta nelle risorse finanziarie o personali che i genitori possono o vogliono mettere a disposizione e ciò non sempre s’accompagna a una vera educazione e responsabilizzazione. Ricerche mediche e criminologiche dimostrano che i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi, non sanno raccontare ragioni e dinamica di un evento violento. Non sanno nominare le proprie emozioni che vengono soffocate.
Quando le parole fanno paura, e più di tutte le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un meccanismo fondamentale di controllo su se stessi. Questi giovani liberano quindi certi sentimenti con la violenza fisica, sugli altri e/o su se stessi. Due casi recenti. Quello degli studenti ginevrini che in novembre, a Roma, hanno aggredito un cameriere, e quello dei tre studenti zurighesi da poco condannati in prima istanza dal Tribunale dei minori di Monaco per aver aggredito, in poche ore, 5 estranei. Quest’ultimi sono stati condannati a 7 anni, 4 anni e 10 mesi e 2 anni e 10 mesi. Essi provenivano da buone famiglie. Nessuno di loro è stato in grado di dare le ragioni che li avevano indotti a questi gravi gesti. Non hanno avuto le parole per dirlo alle autorità. Ancora più grave, non hanno avuto le parole per spiegarselo. La condanna tedesca è stata esemplare. La società, la politica, i genitori e gli esperti si dividono: alcuni scaricano la proprie responsabilità su terzi (scuola, docenti o società). Altri ritengono di usare questi episodi, a fini politici, per criticare la giustizia svizzera e chiedere un inasprimento delle pene. La nostra giustizia penale minorile prevede una pena massima di 4 anni accompagnata da misure di rieducazione.
In Germania un minorenne può essere condannato a pene fino al 10 anni. Secondo i nostri Tribunali minorili e i dati statistici, la differenza è che, da noi, i rischi di recidiva sono del 35%, in Germania dell’80 %. Se politicamente pare pagante auspicare che questi giovani delinquenti vengano messi in carcere più a lungo, in realtà ciò non risolve sempre il problema alla fonte. Scopo della giustizia è di applicare una sanzione giusta, che reintegri il condannato nella società e non solo di escluderlo il più a lungo possibile per ritrovarselo adulto, emarginato e socialmente pericoloso. Il sistema giudiziario interviene a cose fatte, punisce giustamente il singolo e “risarcisce” la vittima. Dobbiamo comprendere come mai questi giovani, siano arrivati a tanto. Come mai oggi questo gruppo di giovani non ha saputo distinguere il bene dal male? Come mai i singoli componenti del gruppo non hanno saputo usare un’altra parola importante che è “No”, “No, io non faccio di queste cose”?
Come mai non vi è stata questa reazione immediata di “vergogna” per quanto alcuni “amici” stavano per fare? Perché lo spirito di gruppo ha prevalso sulla capacità e forza di “scegliere”? Perché non si sono percepite le gravi conseguenze prima che si formasse l’idea di passare all’atto? Se questi atti sono una forma di ribellione, allora quali sono le ragioni profonde di questa reazione negativa al malessere? C’è bisogno di un patto educativo nuovo, un ritorno alla parola e all’ascolto.
Matteo Quadranti, candidato PLR al Consiglio di Stato