“Brat Dejan”/ Fratello Dejan di Bakur Bakuradze Russia-Serbia 2015 / concorso internazionale

Brat DejanUna “cotoletta”, senz’altro e anche irritante, secondo me, per un compiacimento trasparente ad un Milosevic idealizzato.

Tempi di riflessione, pause lunghissime, film intimissimo che segue (con in mente l’immagine di Milosevic) il quotidiano di un ex-massacratore, generale, che per 11 lunghi anni riesce a nascondersi in quella che, oramai, non è più la sua patria. E’ ora l’ex-Jugoslavia: la Serbia. Una società al maschile, (le sole due donne del film sono solo quasi evocate: la moglie in una inquadratura, la figlia deceduta in una visita alla tomba). Amicizia virile nata tra i militari, i massacratori. “Toccante” vedere come rispettano e viziano il loro “generale-fratello-più-grande”. Ancora più rivoltante: vedere come questi “compagni-fratelli-militari” appartengano a tutti gli strati sociali, politici compresi e tutti sono pronti a nasconderlo, il loro generale.

Per queste persone il tribunale dell’Aja che lo ricerca sta compiendo un’ingiustizia. Nessuno di loro si chiede perchè hanno combattuto, a cosa gli sono serviti tutti questi “altri” fratelli morti. Compiaciuti e complici, dopo il conflitto, vivono, molto probabilmente, la stessa vita che vivevano prima. Chi, molto modestamente sulle montagne, chi nelle fabbriche, chi nelle ville lussuose. Una latitanza, quella del generale, vissuta come una prigionia, anche se dorata e indorata dai suoi “fratelli”. Tristezza, noia, inutilità, ricordi famigliari (la moglie che vive da “vedova”, la figlia morta) accompagnano per tutto il film il generale. Accudito dai suoi accoliti come un bambino (armati fino ai denti, girano armi nelle case private più qui che in Svizzera). Con l’amore virile che segna questa loro società senza donne.

Desio-RIl finale, con l’ex-generale che attacca alla sua pistola-feticcio un foglietto con scritto “sotterratemi” e la sua resa alla polizia (pentito? non si capisce bene). Finalmente, interrogato dai servizi segreti, può ancora dire fieramente: Sono il generale! e riacquista la sua dignità di militare, di uomo, di massacratore, di capo dell’esercito. Pronto alla condanna che sarà, per lui, una conferma della sua potenza tanto goduta nella sua vita di guerra? Vogliamo vederlo come un pentimento?

Ho chiesto all’attore protagonista se la rappresentazione di una società misogina, come da lui recitata nel film, sia quella della attuale società serba. No! mi risponde, quasi inorridito. L’ambiente ricreato dal regista, mi dice, vuole rappresentare una società della guerra, la guerra che solo i maschi fanno, per questo non sono presenti le donne, nemmeno nel dopo-guerra “immaginato” dal film. La Serbia attuale non è misogina! … Gli albanesi invece sì! aggiunge. E la traduttrice continua: – E non sa quale realtà per le donne che vivono in Russia –

….. Sarà, aggiungo io ….

Ma, mi dico, la guerra nell’ex-Jugoslavia era dovuta alla differente visione sulla condizione femminile? Questa non l’avrei mai immaginata…

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“El Movimiento” di Benjamin Naishtat – Argentina/Sud Corea 2015 / concorso cineasti del presente

El movimiento 2xIl delirio del potere. Un film durissimo, cattivo, molto ben fatto. Regia che coinvolge (per stomaci forti, un paio di scene di violenza sono molto esplicite). Cupo bianco e nero che sottolinea l’oscurantismo di certe ideologie. La brama del potere, la ricerca dell’avallo della fede. Scene continuamente e improvvisamente interrotte dallo schermo che diventa nero, a sottolineare la tensione, la paura, la ferocia. Scene che sorprendono lo spettatore, non si sa mai cosa di ancora più onirico/orribile avverrà. Ma non è l’onirismo felliniano. E’ delirio puro e efficace, immagini nette ma da incubo. Nessuno, dopo questo film, ascoltando un discorso politico pieno di buoni propositi (come d’uso) farà a meno di pensare a quanto orrore potrebbe nascondersi dietro a rassicuranti promesse.

In tutti noi c’è un po’ di Dio e un po’ di Hitler, diceva un intellettuale mio amico. Beh, qui è Hitler, il nazionalismo estremo, il fascismo più strisciante, la furbizia di creare un capro espiatorio (l’altro, il diverso, l’anarchico, quello che ci è nemico – qui un vecchio venditore di dolciumi e un papà che difende la propria famiglia – ), qui è l’istigare la folla a creare il bisogno di un capo-dittatore.

Tutto ciò viene mostrato e sbandierato come ideologia creativa e positiva… per condannarla, naturalmente. Bravo regista.

Desio Rivera