EvoluzioneUmanità perfettibile in marcia

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Riprendo spunti di riflessione da “La Svizzera tra origini e progresso” di Peter von Matt. Non si può immaginare la storia culturale svizzero-tedesca senza evocare i grandi esuli tedeschi. Le opere dei due maggiori drammaturghi elvetici (Dürrenmatt e, forse, Frisch) devono la loro messinscena e celebrità agli attori tedeschi fuggiti da Hitler e approdati allo “Schauspielhaus”. Nell’Ottocento Gottfried Keller si formò come scrittore nella cerchia zurighese del “Vormärz” tedesco. Georg Büchner, (1813-1838), scrittore e drammaturgo, primo di una serie di 6 fratelli che si sono tutti fatti un nome nel campo delle lettere o delle scienze, morto troppo giovane di tifo, sta sepolto solo soletto al margine di una strada sullo Zürichberg, nobile quartiere abitativo che ospita tuttora molti personaggi di rilievo della città, Christoph Blocher per fare un esempio. Gottfried Semper, architetto, costretto a lasciare Dresda, è autore del progetto del Politecnico di Zurigo. Friedrich Nietzsche (tutti lo citano, pochi lo hanno letto, da anni vorrei recuperare, il tempo passa e altri libri mi sommergono) fissò la sua dimora in Engadina, Richard Wagner a Lucerna, un secolo dopo Hermann Hesse a Montagnola, Thomas Mann a Kilchberg, e la lista dei “minori” sarebbe lunghissima. Il tutto è stato un processo di osmosi culturale su uno sfondo di diversità politica tra i due paesi che ha lasciato un’impronta marcata sulla Svizzera,

soldatiVon Matt conclude questo capitolo con una considerazione che probabilmente siamo in molti a condividere. “L’evoluzione della Svizzera moderna potrebbe essere un dramma didattico per tutti coloro che indietreggiano spaventati di fronte allo sviluppo della democrazia diretta. Temono il popolo. Ma a tutt’oggi non è dimostrato che il popolo sia più stupido della media dei suoi politici”. Io sono addirittura arciconvinto che il popolo è più intelligente della media dei suoi politici, categoria alla quale, aihmè, ho appartenuto, a basso livello, per quasi quarant’anni.

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“Il termine liberale risale ai primi anni del XIX secolo, ma il suo significato corrisponde agli ideali delle due rivoluzioni che segnarono la fine del feudalesimo e formularono i loro princìpi nelle due dichiarazioni dei diritti dell’uomo, l’americana Declaration of Independence del 4 luglio 1776 e la francese Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 26 agosto 1789. Principio basilare e irrinunciabile della fede liberale è che l’individuo e, a lungo termine anche l’umanità intera, sono migliorabili. La parola corrispondente, perfettibilità, ha elettrizzato i dibattiti del XVIII secolo”. Per sfociare poi nelle due rivoluzioni summenzionate, mi permetto di aggiungere. A mio modesto parere, visto quel che abbiamo sotto gli occhi in questo XXI secolo, la tesi della perfettibilità della razza umana è una pia illusione.

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Per Dürrenmatt “l’amore è l’unico bene esistente in un mondo di brutalità, violenza, omicidi senza fine e di eterna lotta fra ordinamenti illusori e ideologie”. Come non condividere una simile diagnosi, soggiungo, che per penetranza sembra quasi essere stata posta tramite la risonanza magnetica, che a quei tempi era ancora tutta da inventare?

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Che Socrate reggesse meglio il vino di tutti lo testimonia Platone nel “Simposio”. Mi par di sentire la voce scalettata da repentini acuti di Romano Amerio quando descriveva la scena:” Socrate beveva, e tutti bevevano. Calò la notte fonda, e ancora tutti bevevano. Spuntava l’alba, tutti erano sotto il tavolo, e Socrate ancora beveva”.

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I mentori della “political correctness”. Mentori o mentitori? Questo appiattimento su una quasi unanime “Weltanschauung”, che oltretutto è frutto di un massiccio lavaggio del cervello di tutta un’umanità da parte della propaganda statunitense, è talmente ripugnante da mettermi in irritazione ogni volta che ci penso. Per dirla con von Matt, questi corifei della correttezza ad ogni prezzo sono persone “che hanno appeso al chiodo dell’autocompiacimento la propria capacità critica di giudizio”.

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Robert Walser (1878-1956), scrittore vero, maestro di ironia (“favolosa ironia che ricorda quella di Henri Rousseau”), finito in manicomio, trovato morto nella neve dopo una fuga dal ricovero coatto, è stato oggetto di un vero e proprio culto a partire dalla fine degli anni ’70 da parte parte dei sessantottini in crisi di rivoluzionaria fiducia. “Non si pensava più alle barricate, ma a un rabbioso distacco dal sistema contestato”. Fiorì allora “una cultura di chi voleva mollare tutto, e si trasferiva con tre capre e sette galline nelle Centovalli”. Verissimo, ne ho avuti parecchi in cura di questi bucolici illusi, non avevano documenti, pochissimi soldi e non erano assicurati, dovevo fornire anche i medicamenti. Il naturale passaparola mi riempì così lo studio di questi strambi e non sempre pulitissimi pazienti. Dopo un paio d’anni la dura realtà dell’autosostentamento integrale in ambiente bucolico li fece scomparire uno dopo l’altro: le tre capre disperse sui monti dai cani randagi, le sette galline in bocca alla volpe. Una sola donna, solitaria, è rimasta, in val di Riei sopra Verscio, sopravissuta, grazie alla parziale rinuncia agli ideali di gioventù, allevando una cinquantina di capre e vendendo formaggio e capretti. Le sue capre (dannate bestie, con una carica di simpatia tale da far perdonare tutte le loro malefatte) stanno al libero pascolo, passano regolarmente dal mio monte e mi distruggono tutto quel che possono. Anni fa mi ha promesso come risarcimento una formagella, che sinora non ha trovato il tempo di farmi avere.

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“L’arte non è solo l’unione di talento e mestiere, è anche una passione che non tollera rivali”.

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Che le parole siano in possesso di una propria forza che va oltre quella del cervello di chi le esprime è un concetto sostenuto “potentemente” da Romano Amerio. Lo sostiene anche Peter von Matt, prendendo lo spunto dal termine bellezza. “Basta pensarci, tutti la conoscono, la comprendono, eppure è una voragine. Chi volesse indagarla dovrebbe calarsi in un vulcano. Eppure la si considera una delle più banali” (questo “eppure” duplicato in sole tre brevissime frasi non lo apprezzo). “E`evidente che le parole sono anche entità morali”. Nella conversazione con Amerio, che era più una lezione cattedratica che un colloquio, avevo proposto, come termine esemplare per concretizzare il concetto di “forza intrinseca dei vocaboli”, il termine infinito nella sua accezione di sostantivo. Usandolo siamo tutti consci di quel che intendiamo esprimere, ma l’infinito è un’essenza che va al di là delle possibilità di cognizione (facoltà di comprensione) del nostro cervello.

Gianfranco Soldati