Come dice l’Avvocato, questo articolo è stato scritto prima. Poi, giovedì 23, è successa quella cosa enorme, che crea una condizione del tutto nuova.
Uno specifico punto, direi, non è stato evidenziato a sufficienza dai commentatori. La Brexit sblocca una situazione che si era malignamente incancrenita.
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Ho consegnato alla redazione questo mio commento prima della votazione degli inglesi sul referendum. Uscire dall’UE o rimanere a condizioni modificate. Non che io consideri il risultato irrilevante, ma purtroppo non sarà determinante per la soluzione dei diversi problemi che affliggono l’UE. Il referendum, qualunque possa essere il risultato, è stato utile anche se ha lacerato l’Inghilterra e ancor più il Partito conservatore al Governo. Utile, perché ha messo a nudo una grave frattura più o meno riscontrabile in molti altri Paesi dell’UE. Da un lato Governi, partiti tradizionali, burocrati e amministrazioni pubbliche in affanno in tutta Europa per difendere strutture che garantiscono loro il potere, con le loro inefficienze e lo sguardo sempre fisso sulle prossime scadenze elettorali. Alleati nell’establishment, molte espressioni dell’economia timorose in una non facile realtà per l’immediato futuro e terrorizzate dall’insicurezza e da possibili mutamenti e relativa «distruzione creatrice». Con il sostegno infine di parti del mondo accademico e intellettuale, spesso affascinato da speculazioni cerebrali che dimenticano gli spigoli della realtà.
Dall’altra parte molti cittadini delusi, che aspirano ad un miglioramento del loro benessere personale, alla sicurezza nelle loro case, che non vedono i loro problemi risolti e dopo anni realizzano quanto non veritiere, ipocrite e talvolta irrealizzabili sono le parole della politica.
Lo scontro fra le due parti – guastato da visioni apocalittiche ridicole e frottole per bocche buone di entrambi i contendenti – non è esclusività del Regno Unito, ma con toni più o meno esasperati lo troviamo in quasi tutti i Paesi dell’UE.
Basti pensare al Front National di Marine Le Pen in Francia, ai Grillini e alla Lega con Salvini in Italia, a Podemos in Spagna, UKIP in Gran Bretagna e AfD in Germania, FPÖ in Austria, a Syriza in Grecia, ai Comunisti al Governo in Portogallo, a Wilders in Olanda e dimentichiamo i Paesi più piccoli. Sono i partiti definiti populisti di destra o sinistra ma tutti a connotazione antieuropea. In Svizzera le controversie che ci dividono sulla valutazione dei Bilaterali, o in genere le posizioni nei confronti dell’UE, ricalcano lo stesso schema sociologico.
La mia tesi è che il risultato del referendum inglese inciderà in ogni caso sulle dinamiche di Bruxelles ma non basterà a risolvere i grandi problemi dell’UE. Cominciamo dalla crescita economica che nell’Eurozona dal 2000 al 2014 è stata del 12%, la percentuale più bassa a confronto con tutte le altre zone commerciali nel mondo (la media mondiale è stata del 47%). Ciò si contrappone alle promesse e decisioni dei capi di Governo dell’UE che con il Patto di Lisbona del 2000 si prefiggevano e impegnavano solennemente in 10 anni di fare dell’UE «la zona economica più competitiva, dinamica, basata sulla scienza, del mondo, al fine di assicurare una costante crescita economica con più e migliori posti di lavoro».
A distanza di 15 anni la crescita economica langue ancora nonostante le migliaia di miliardi di euro iniettati nel mercato, il tasso di disoccupazione è sempre attorno al 10% (con punte del 40-50% di disoccupazione giovanile in alcuni Paesi), la politica dei tassi 0 o negativi, penalizza (tassa) pesantemente il risparmio e mette in pericolo i sistemi pensionistici, l’indebitamento degli Stati aumenta arrivando a livelli di guardia (100% con punte del 150%). La Grecia è fallita ma non si deve dirlo per non dovere azzerare i crediti, l’euro si rivela un errore voluto, ignorando le considerazioni economiche, per affrettare l’unione politica in Europa e mette in pericolo l’intera costruzione UE (parole di Merkel).
Il Trattato di Schengen (abolizione delle frontiere all’interno dell’UE) ha dimenticato (al solito) la realtà, ovvero che le frontiere in Europa sono oggi costituite dalle reti nazionali della socialità diverse l’una dall’altra. Il trattato di Dublino che doveva proteggere le frontiere europee vale quanto la sabbia al vento e tende a rendere ancora più difficile una politica di protezione contro immigrazioni di massa, che angosciano i cittadini dei diversi Paesi e mettono a nudo l’incapacità dell’UE di passare dalle enunciazioni alla realizzazione di politiche comuni. E il discorso potrebbe continuare. Un recente sondaggio ha dato percentuali paurose a proposito dei sentimenti anti-UE nei diversi Paesi.
In una simile situazione una classe dirigente dotata di intelligenza politica e onestà civica non si dovrebbe arroccare su strutture di potere e progetti che hanno evidentemente fallito e sono all’origine del successo vertiginoso dei partiti di protesta con tutti i relativi pericoli.
Gli storici tendono a dare la responsabilità per lo scoppio della guerra del 1914 alla classe dei governanti di allora mediocre ed inetta. Mi auguro non debbano tra 100 anni ripetere l’impietoso giudizio a proposito di un fallimento dell’Europa. A chi ha le leve di comando incombe l’obbligo di presentare un diverso progetto politico che rispetti democrazia, diversità culturali, libertà economica ed esigenze sociali. La vera alternativa non è tra questa UE ormai logora o il rifiuto ad ogni accordo. La necessaria soluzione va cercata in un’altra Europa, un progetto che trovi il sostegno degli europei.
Tito Tettamanti
(pubblicato nel Corriere del Ticino e riproposto con il consenso dell’Autore)