Ha Ben Dod (The Cousin), R. Tzahi Grad, Biennale di Venezia, ORIZZONTI

Sinossi: Un mattino, prima dell’alba, Naftali (Tzahi Grad – Big Bad Wolves), personalità dei media locali, va a prendere un operaio palestinese e lo porta a casa sua per riattare il suo cadente studio sul terreno della sua proprietà in affitto in un villaggio israeliano. Fahed (Ala Dakka – Beyond the Mountains and Hills) non è l’uomo che Naftali pensava di assumere (lui dice di essere il fratello e che lavora nella stessa impresa). E insiste nel dire di essere capace e di sapere come riattare il posto. Colmo di buone intenzioni e in grado di portare avanti il progetto. Naftali soprassiede  quindi alla sua perplessità e ingaggia Fahed. Più tardi, in quel giorno, circola voce che una giovane ragazza che vive nei dintorni della casa in riattazione è stata assalita e il dito si punta immediatamente su Fahed, lo straniero di questo quartiere. Inizialmente, un sereno impulso coniugato alla sua volontà di portare il progetto a termine, costringe Naftali a difendere Fahed da questa accusa. Ma presto, la sua facciata liberale sarà sgretolata dalla pressione crescente dai cosiddetti vicini-vigilantes. La moglie non si sente a suo agio con lo straniero in casa. La curiosità dei suoi figli alle immagini della Mecca sul telefonino dell’operaio e la sua crescente convinzione che questo lavoratore non ne sa molto di impianti elettrici persuade Naftali a farsi domande sul proprio giudizio.

Diretto e scritto da Tzahi GRAD, IL CUGINO è contemporaneamente una commedia nera che esplora le relazioni tra arabi e israeliani ed una allegoria su un fenomeno universale. La paura dell’altro che può trasformarsi facilmente in razzismo.

La stupidità del gruppo, la ricerca del colpevole ad ogni costo, quello straniero. Il regista ci dice  che il razzismo è biologico. È dentro tutti noi. Se viverlo o ignorarlo è la nostra scelta. Gli ebrei che ne sono state vittime (l’olocausto è lì a ricordarcelo) si ritrovano troppo spesso con gli stessi odi e paure quando si confrontano con l’altra razza, quella araba, con la quale convivono. Una paranoia totale che li soggioga fino a trasformarli in carnefici alla prima sensazione di presunta criminalità da parte di un palestinese. Il protagonista, Naftali, è portavoce di un progetto di ricerca di comunicazione attraverso la linea verde, quella disegnata dagli israeliani per separarli dai palestinesi. La sua voce comprensiva, il suo agire, la sua convinzione dell’innocenza di Fahed, lo portano a scontrarsi (anche fisicamente) con la sua gente, quelli che, in gruppo, non ragionano e vogliono « fare giustizia ». Una situazione che degenera e mette le convinzioni di Fahed in crisi.

Anche con la moglie che non vede perchè debba essere così « innocentista ». Ma poi la verità, sussurrata sommessamente dalla vittima, porterà al vero colpevole. Uno di loro! Un ebreo. Ma resta l’amaro di un percorso, quello della comunicazione tra arabi ed israeliani, che stenta a concretizzarsi. Paura e odio = razzismo. E molti, troppi, non ne sono consapevoli. È così facile trovare un capro espiatorio fuori dal proprio orto. Quello che è stato ingaggiato come tuttofare, bravo e volenteroso, buono e innocente. Ma è un palestinese. E allora, un modo per dargli colpe lo si trova. Il razzismo è dentro di noi. Ma la comunicazione (qui, con un megafono, come fosse una manifestazione di protesta) è la voglia, l’auspicio che risolverà tanti pregiudizi, tanti preconcetti. Che tolgano, finalmente, questa paranoia, questa ossessione di assassini e carnefici dappertutto. Sia tra gli israeliani che tra i palestinesi la voglia di superare la paranoia c’è. Basta cercarla e provarci. Comunicando.

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My Generation, R. David Batty, Biennale di Venezia, FUORI CONCORSO

Sinossi: L’icona cinematografica inglese Sir Michael Caine narra ed è protagonista di ‘My Generation’, la vibrante storia della sua personale crescita attraverso la Londra degli anni ’60. Basata su racconti personali e straordinari materiali d’archivio, questo film documentario vede Caine viaggiare indietro nel tempo per parlare con i Beatles, Twiggy, David Bailey, Mary Quant, i Rolling Stones, David Hockney e molte altre celebrità.

Il film è stato scrupolosamente montato nel corso dei sei anni passati da Caine insieme al produttore Simon Fuller, agli sceneggiatori Dick Clement e Ian La Frenais e al regista David Batty per raccontare la storia della nascita della cultura pop a Londra, attraverso gli occhi di un giovane Michael Caine: “Per la prima volta nella storia la giovane classe operaia si è battuta per se stessa e ha detto, siamo qui, questa è la nostra società e non ce ne andremo!” Michael Caine divenne una star a livello mondiale dopo ruoli in film come ‘Alfie’ (1966), ‘Un colpo all’italiana’ (1969) e ‘I lunghi giorni delle aquile’ (1969). Ma ‘My Generation’ rivela come fu fortunato ad assicurarsi il suo primo debutto in ‘Zulu’ (1964) e come molte altre figure fondamentali degli anni ’60 dovettero lottare per farsi notare. ‘My Generation’ usa attentamente gli audio delle conversazioni di Caine con i suoi coprotagonisti intervallati da materiali d’archivio mai visti per portare il pubblico indietro nel tempo, nel cuore degli anni ’60. In una delle sequenze principali accompagniamo Caine mentre egli attraversa la Piccadilly Circus di oggi sovrapposta a quella degli anni ’60 per creare uno straordinario effetto da viaggio nel tempo.

“Michael Caine è la star cinematografica più importante e più versatile che la Gran Bretagna abbia mai prodotto” (Daily Telegraph).

Il film racconta l’intensa storia dell’esplosione della cultura pop negli anni ’60 attraverso gli occhi del più grande attore vivente della Gran Bretagna. Michael Caine introduce il film nel cuore monocromatico ed abbottonato di Londra agli inizi degli anni ’60, in un mondo segnato dalle difficoltà economiche, con il razionamento della Seconda Guerra Mondiale terminato solo sei anni prima.

“Crescendo a Londra io e i miei amici eravamo abituati a sentire i nostri genitori parlare dei bei vecchi tempi”, riflette Caine nella sua voce inconfondibile. “Noi ci chiedevamo ‘Cosa c’era di così bello di quei  giorni?’”.

Negli anni ’60 a Londra si è formata una nuova generazione. Sono energici, ribelli e pieni di speranza, e sono questi giovani uomini e donne, in particolare della classe operaia, che erano destinati ad avere un enorme impatto sulla cultura popolare, mentre le barriere crollavano e il mondo si dirigeva verso il decennio più turbolento del secolo. Michael Caine nel 1960 aveva 27 anni, era un astro nascente del cinema inglese ed un giovane uomo che si apprestava ad entrare in una tempesta perfetta. Con un bagliore negli occhi, Caine spiega come ha cambiato il suo nome per arrivare a recitare. Il documentario si trasforma in uno splendido technicolor mentre la rivoluzione culturale prende slancio e veniamo trascinati nel movimentato e gioioso mondo della Londra della metà degli anni ’60. La Beatlemania, le minigonne, la pop art, un’era segnata dalla nascita dei primi fotografi famosi, registi e creativi pubblicitari, persone creative che sposarono il mondo in fermento dei mass media con risultati strabilianti. Ma sia lui che molte altre figure fondamentali degli anni ’60 dovettero lottare solo per farsi notare nell’ambiente.

Il panorama di quell’era viene alla luce mentre ascoltiamo Caine che parla con gli Who, i Beatles, Twiggy, Marianne Faithfull e Mary Quant, oltre alle icone creative come David Hockney, Brian Duffy, Barbara Hulanicki (BIBA), Jean Shrimpton, Keith Richards e David Bailey.

‘My Generation’ include scene nuove e originali di Caine mentre visita i vecchi luoghi della sua infanzia e gioventù nel West End, The Kings Road, lungo il fiume Tamigi e fino al leggendario nightclub di Leicester Square The Ad Lib, dove i Beatles e i Rolling Stones si esibivano e dove Rudolph Nureyev imparò come ballare il twist. Queste scene sono intrecciate con materiale mai visto di Bailey che fotografa Jean Shrimpton, Vidal Sassoon che spiega le sue acconciature innovative, Mary Quant mentre taglia del tessuto, David Hockney che crea la sua arte e soprattutto i Rolling Stones mentre si preparano per il loro storico concerto di Hyde Park, nei giorni che seguirono la tragica morte del loro chitarrista Brian  Jones.

Le speranze di queste giovani brillanti stelle cominciarono ad affievolirsi con l’arrivo delle droghe nelle comunità creative di Londra e la decade volse al termine. Ma ormai il mondo era cambiato per sempre. Caine è un attore di serie A di Hollywood e questo straordinario film è un temporaneo sguardo indietro alla Londra che è stata in un’era molto lontana da cellulari e computer: “Non messaggiavamo tra di noi. Ci parlavamo faccia a faccia e questo è ciò che ha generato creatività, perché le persone potevano incontrarsi e scambiarsi  idee”.

‘My Generation’ è la testimonianza di un’era memorabile e di un uomo altrettanto memorabile.

Un film con tanta musica anni ‘60. Chi si ricorda di radio Caroline? La prima radio libera, radio pirata, che trasmetteva musica pop 24 ore su 24 fuori dalle acque territoriali inglesi. Un film che ci fa rivivere quell’epoca di trasgressioni e droghe (LSD e marijuana) che espandevano la mentalità in dimensioni anti-establishment e creatività artistica, musicale, sociale, sessuale. La fantasia al potere, si affermava e ci si credeva. Ma poi intervenne la polizia, la repressione. E le droghe divennero pesanti. E subito, la generazione successiva, ricorderà, ma non ripeterà, quell’incredibile periodo di libertà e potere ai giovani figli della classe  operaia.

Desio Rivera