A mezzanotte del 30 giugno 1997 Hong Kong non era più una colonia britannica, ma ritornava alla Cina con un patto chiaro, bandiera cinese, ma statuto speciale: “one country, two system” per un periodo di 50 anni da quella data.

Dopo 22 anni dalla “reversione” sono sempre più forti i dubbi degli abitanti sul fatto che Pechino rispetti i patti e che vengano mantenuti i diritti fondamentali promessi. Lo dimostrano le proteste dell’ultimo mese, ben diverse da quelle del 2014 “umbrella movement”, ormai dimenticate.

Il “grilletto” tirato dalle dimostrazioni, secondo fonti attendibili di due milioni di cittadini , ha avuto effetti enormi, tenendo conto che tutta la popolazione della ex colonia è di 7.4 milioni di abitanti è un movimento impressionante. Ha impedito alla governatrice “fantoccio”, Carrie Lam, di far approvare una legge che avrebbe consentito a Pechino di imporre l’estradizione di persone condannate per reati “suggeriti” da loro.

Si può facilmente immaginare quali tipi di eventuali incriminati/condannati potrebbero interessare alla Madre Patria…..

Questa è stata la scintilla che ha scatenato il putiferio. La dimostrazione è arrivata a scardinare gli ingressi del Legislative Council, coprendo con gli spray scritte “PRC” (People Republic of China) imbrattando i muri con “non ci sono dimostranti, solo tirannia” ed anche “sei stata tu (Lam) che ci hai insegnato che le proteste pacifiche sono futili”. E, più grave, “se noi bruciamo, brucerete con noi”. Da Pechino naturalmente si picchia sul tasto delle interferenze dell’asse Washington/Londra.

La polizia è alla fine intervenuta con i soliti idranti, gas e bastonate, ma non in modo drammatico. Nei giorni successivi la Lam ha sospeso l’iter legislativo per le estradizioni, ma non ha archiviato il progetto.

La domanda che ora ci si pone è che cosa farà il Premier Xi Jinping perché il problema non può essere accantonato. Per vari motivi. In primis per l’immagine della Cina. Aggiungere un altro contenzioso a quelli già ostici, il Tibet colonizzato, i campi di “rieducazione” dello Xinjiang (problema degli Uiguri internati a milioni) non è auspicabile. Rispetto agli altri, Hong Kong è molto visibile: una vetrina cinese troppo esposta.

In secondo luogo, le ripercussioni su Taiwan, la repubblica indipendente sotto protezione americana che nelle dichiarazioni del Premier cinese deve ritornare alla “madre patria” durante la sua vita. Anche simbolicamente, l’ultimo tassello che completerebbe la rivoluzione comunista (4 ottobre 1949) tuttora incompiuta.

Lo specchio per le allodole per Taiwan è Hong Kong, come modello di aggregazione, ma se l’ex colonia e relativi patti dovessero essere insoddisfacenti, come sta succedendo, allora sarebbero guai. Perché Xi vuole l’unificazione Cina- Taiwan presto; risulterebbe che questo tema ed eventuali implicazioni militari sarebbero oggetto di quotidiana discussione a Pechino.

Un vecchio proverbio cinese suggerisce che “sebbene sia doloroso togliere un ascesso, è sempre meglio che nutrire il diavolo”.

Se così fosse, alta è la probabilità che il sollevamento di Hong Kong possa avere delle conseguenze dolorose. Sapremo nei prossimi mesi che cosa succederà: la popolazione ed i giovani di Hong Kong hanno lanciato il guanto di sfida. Ogni mossa di Pechino per coartare la volontà degli abitanti di Hong Kong e violare gli accordi, non potrà passare sotto silenzio e non sarà come in Cina dove gli episodi di Hong Kong sono stati censurati.

La leadership di Xi, ha quindi una gatta difficile da pelare.

Come ha scritto Louisa Lim sul New York Times “no one knows what will come next”. Qualcosa succederà, ma difficile prevedere quando e in che misura.

Vittorio Volpi