Il Financial Times del 30 novembre in poche righe ben sintetizza come il Giappone prefiguri come stiamo diventando anche noi in Occidente (Usa inclusi) dandoci un modello su come sopravvivere con i nostri problemi che, sempre più, si cronicizzano: bassa crescita economica, inflazione virtualmente inesistente, debito pubblico alto (enorme per il Giappone) e mancanza di soluzioni per risolvere questi problemi.

L’editoriale sostiene che è un modello per gli altri che si avviano a diventare simili al Giappone. “Piuttosto che la promessa di una crescita rapida ed un’economia high tech, ci presenta lo spettro di una “japanification”, un nuovo vocabolo da tenere a mente.

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Non sono pochi gli analisti che sono alla ricerca di come superare/evitare una lunga stagnazione dopo il corona virus e di come affrontare il peso di enormi debiti privati e pubblici e guardano alle esperienze giapponesi che dallo scoppio della bolla finanziaria della fine degli anni ’80 videro l’indice Nikkei della borsa di Tokyo precipitare dal picco dell’indice a quasi 40 mila Yen fino a sotto i 10 mila in poco tempo.

L’esperienza nipponica può guidarci in ciò che non si deve fare se vogliamo “age gracefully”, cioè invecchiare bene. Vediamo che cosa hanno fatto nel paese del Sol Levante negli ultimi 30 anni per capire di quali situazioni stiamo parlando.

Innanzitutto il Giappone ha sofferto di bassa crescita ed inflazione. Hanno seguito politiche monetarie molto lasche immettendo tutta la liquidità possibile nel mercato. Dobbiamo ricordare che il Giappone ha il controllo della moneta, lo Yen, che dipende tutto da loro. Chi sta in una moneta unica (l’Euro) non ne ha il controllo. Per seconda cosa, nonostante avessero un target di inflazione del 2% non hanno mai raggiunto i loro obiettivi.

Ciò ha contribuito a creare e mantenere il peggior rapporto debito pubblico/GNP al mondo (238,20 nel 2019). Bisogna però dire che i giapponesi hanno solo un 6% di investitori stranieri nei loro Kokusai, titoli di stato. Quindi credono nel loro paese e non sono quindi vulnerabili come per esempio l’Italia, dove la mano straniera conta per il 39%.

Un’altra caratteristica interessante è che la bassa crescita economica non ha intaccato il reddito dei cittadini, la ragione è che data la scarsa natalità (1.37 figli per famiglia, secondo l’OCSE per mantenere il livello della popolazione sarebbe necessario un tasso di fertilità del 2) e la trascurabile immigrazione, un PIL anche con bassa crescita è distribuito su meno cittadini per cui il reddito pro-capite è andato migliorando.

Inoltre la decrescita della popolazione e più di 35 milioni di cittadini su 126 milioni non hanno intaccato la forza lavoro grazie all’aumento dell’età lavorativa, l’incoraggiamento per le donne ad entrare nel mercato del lavoro ed il forte utilizzo della tecnologia nell’industria e nei servizi con conseguente aumento quindi della produttività.

Tutti questi fattori hanno contribuito a mantenere la situazione stabile ed una buona tranquillità sociale che non vuol dire però prospettive ottimistiche per i giovani. Al contrario, anche in Giappone molti la definiscono “la generazione perduta…”.

Tornando al Financial Times, scrive: “il successo del Giappone nel mantenere stabile la situazione sociale ed aumentare il suo livello di vita nonostante le pressioni demografiche è ammirevole”.

La lezione per noi in Europa, in ritardo rispetto al Giappone, ma che stiamo sperimentando gli stessi problemi, è che si può migliorare il livello di vita dei propri cittadini anche senza una crescita della popolazione (come molti predicano).

Quindi, da osservare la “japanification” per le cose buone fatte e per evitare quelle sbagliate può essere una lezione degna d’interesse.

Vittorio Volpi