di Francesco Pontelli

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immagine Pixabay (Gerhard G.)

Fino alla caduta del muro di Berlino le federazioni sportive dei paesi appartenenti al Patto di Varsavia in occasione di ogni evento sportivo mondiale, ed a maggior ragione per le Olimpiadi, utilizzarono ogni “espediente” per ottenere il maggiore numero di vittorie ed utilizzarle all’interno della propria propaganda politica. Le ginnaste assumevano dei ritardanti dello sviluppo per avere dei corpi di bimbe in età tardo adolescenziale. Le nuotatrici si presentavano ai blocchi di partenza con fisici mascolini pompati da ogni tipo di sostanze esattamente come le atlete del sollevamento pesi. L’obiettivo era sempre quello di ottenere la supremazia in ambito sportivo come immagine della superiorità politica del blocco socialista nei riguardi del mondo occidentale.

Ovviamente i controlli risultavano meno capillari e specifici di quelli attuali e rendevano le competizioni olimpiche e mondiali più una occasione di scontro politico che l’applicazione dello spirito sportivo ed olimpico. Veniva così definito il “doping di Stato” questa tipologia di approccio al mondo sportivo come espressione della volontà di supremazia del blocco socialista.

Dopo oltre trent’anni ed alle soglie delle Olimpiadi di Tokio la stessa voglia di imporre un paradigma ideologico ed etico trova un’altra nuova applicazione. Un atleta nato uomo e dedito alle disciplina del sollevamento pesi ha avviato e completato la propria legittima transizione di genere. Permettere, tuttavia, di competere con le altre atlete femminili in questa disciplina sportiva rappresenta l’applicazione di un “doping etico-ideologico” di genere molto simile a quello utilizzato dai paesi del Patto di Varsavia.

Ammettendo questa atleta, che ora gode del vantaggio di un doping genetico mantenuto anche se ha cambiato genere, si intende dimostrare la superiorità del pensiero Lgbt: quindi tanto nella forma quanto nella sostanza risulta molto simile all’atteggiamento dei paesi del Patto di Varsavia.

In più si ottiene anche un effetto paradossale in quanto i promotori della ideologia Lgbt si trasformano in portatori di una penalizzazione nei confronti dell’universo sportivo femminile che ha raggiunto le Olimpiadi attraverso allenamenti e fatiche costanti. In altre parole, la volontà talebana di supremazia imposta in ambito sportivo dai rappresentanti dell’ideologia Lgbt si rivela decisamente antifemminista, quantomeno in ambito sportivo. Nel momento, infatti, in cui si intende tutelare uno specifico genere sociale attraverso un quadro normativo specifico ed escludente, inevitabilmente vengono penalizzate le altre categorie escluse da questa tutela rafforzata. Viene meno quindi persino il principio dell’uguaglianza all’interno di una competizione sportiva olimpica.

La compagine politica che si considera progressista e portatrice dei principi di uguaglianza tra donna e uomo, ora immersa nel delirio Lgbt, penalizza proprio quelle donne sportive che hanno raggiunto il traguardo della competizione olimpica con fatica e dedizione.

Il doping di Stato, prima della caduta del Muro di Berlino, rappresentava il tentativo di ottenere dei riscontri, in ambito sportivo, della superiorità dell’ideologia Socialista. Il doping “Lgbt” imposto da questa ideologia penalizza soprattutto le donne e le atlete olimpiche e rappresenta l’ennesimo episodio di un delirio politico per il quale tutti i principi sportivi vengono sacrificati di fronte ad una ideologia assoluta.

La sintesi tra politicamente corretto ed ideologia Lgbt sta avendo effetti devastanti proprio nei confronti di quelle categorie come le donne (ed atlete) che gli stessi dicevano di voler tutelare.

L’integralismo talebano utilizzato come forma per imporre la propria visione ideologica dai sostenitori della ideologia Lgbt contemporaneamente azzera ogni tutela per tutte le atlete la cui unica colpa è quella di avere raggiunto il traguardo Olimpico semplicemente con l’allenamento ed il sacrificio.