di Cristina T. Chiochia
The battlefield (1989)

Il linguaggio pittorico come appartenenza artistica. Dal 24 ottobre sino al 13 febbraio 2022 al Museo d’Arte di Mendrisio sarà possibile visitare la mostra sul lavoro di A.R.Penck con 40 dipinti e 20 sculture. Ci sono pochi pittori così intimamente tedeschi come A.R. Penck. A partire dal nome. Non solo quindi per quel suo “appartenere” alla nazionalità tedesca quando il mondo divideva ancora i suoi abitanti in tedeschi dell’est e dell’ovest , ma anche perché  Ralf Winckler, nato a Dresda nel 1939 (questo il suo vero nome: lo pseudonimo lo inizierà ad usare solo nel 1968), scelse il nome di un ghiacciaio e del celebre geografo a cui era dedicato e celebre direttore dell’istituto di oceanografia di Berlino, sicuramente non a caso, ma quasi in una sorta di continuità, al fine di mettere bene in risalto che la sua espressione artistica derivasse da quella “guerra fredda” che era poi, in fondo, la sua vita.

Mann Bewegung I (1998)

Contraddizioni e linguaggio originale dunque in dialogo presso le sale della mostra dove le opere esposte provengono da collezioni private e dalle gallerie di M. Werner a Berlino, Colonia e N.Y. La mostra, curata da Simone Soldini, Ulf Jensen e Barbara P. Malacrida cosi come il catalogo, offre una retrospettiva inedita per la Svizzera italiana. Socialista ma inviso dalla unione degli artisti della Germania dell’Est, Penck fu proprio all’ovest che riuscì a esprimersi appieno continuando però a rimanere profondamente legato al suo credo politico. Un concept affascinante quello della mostra per mettere in risalto la sua storia personale, grazie anche agli ampi studi ad esso dedicato (da non perdere il catalogo che è una sorta di antologia del lavoro dell’artista e della sua storia) e che fa dialogare opere come il “Mann un Frau” del 1968, con i  tanti “Senza titolo” su carta del 1965 dove si comprende appieno come, con l’arrivo degli anni ’60  per Penck cambiò tutto: lasciati i modelli classici, per esempio, tra cui Picasso, e il felice incontro con un senso di materia amplificato: olio su masonite, su fibra tessile, su cartone, per esempio in mostra il “Primitive Computer” del 1968 esempio indiscusso tra segno e atto pittorico (e di cui i saggi contenuti nel bel catalogo della mostra  fanno vari esempi).

Adler und Schlange – schwarzer Planet (2013)

Nella  parte centrale della mostra,  ecco che le sue “figurine umane” , così stilizzate  nel suo pennello, e opere dipinte o disegnati, grandi o piccole, quasi per approcciarsi ad una sorta di “appunto scientifico” dell’umanità, irrompono nei materiali diventando “standard”, fino a diventarne l’essenza e cifra stilistica nel suo modo di concepire la scultura. Metallo, pennello, nastro adesivo, cartone, diventano mezzi di espressione come il metallo dipinto tanto che una intera stanza della mostra è dedicata agli “standard model” del 1972/73. Quasi il racconto di una storia: quella  storia di una sorta di esule privato addirittura della sua nazionalità e libertà di rientrare nel suo paese ma che nel suo lavoro fatto di scarti, celebra quel senso di definizione e di somiglianza nel mondo. In mostra infatti ecco “Definition Von Ähnlickeit”: definizione di somiglianza del  1971 con nastro adesivo, bottiglia, carta e cartone, solo per citare un esempio.

Ma solo con una legge  interiore “cambiata”, quasi fosse un codice artistico, quelle leggi che gli proibirono nella fine degli anni settanta (che di fatto faceva diventare illegale lavorare con la Germania dell’Ovest e con alcuni esponenti del neoespressionismo) , il senso di esaminare i dati, i alori di una società  come “voleva” lui , che i suoi lavori paiono più interessanti. 

Standart T (X) I (1994)

Ed ecco quindi che la mostra di Mendrisio dà ampio spazio ai lavori e tele più grandi e monumentali, che si presentano quasi come moderni “graffiti” che ricordano Basquiat e Keith Hearing -che lo conoscevano e stimavano. Persone, animali e cose con protuberanze enormi, costantemente in bilico, visioni cupe della vita e del mondo. Che esplodono nel colore come abissi  in fiamme come nello struggente “How it works” del 1989 o il “The Battlefield” sempre del 1989. Ma  è forse nel suo essere scultore e musicista che la sua arte diventa performance e che la mostra intende celebrare con varie attività collaterali tra cui attività didattiche per le scuole per mettere in risalto la sua logica per immagini facendone fare esperienza ai più piccoli, fino all’organizzazione di un concerto: una sorta di jam session di jazz  per immagini.

Concludendo, linguaggio pittorico e di forma ai materiali come una sorta di appartenenza artistica, in particolare nelle opere di legno e materiali poveri e di riuso si esprime la sensibilità di questo artista. Mentre le sculture in bronzo lavorate in modo stilizzato diventano sia forma che traccia insieme, di una vita alla ricerca di un posto in cui sentirsi a casa. Forse per questo, ad accogliere i visitatori nel chiostro è la sua opera più monumentale presente in mostra.

Immagini con copyright ProLitteris, Zurigo 2021