Durante i giorni ucronici della pandemia, quando il mondo taceva e le strade erano deserte, Silvio Raffo ha trovato nella clausura l’eco di un’elezione segreta: quella dell’anima poetica che, privata del consueto brusio del vivere, si volge con più nitida intensità all’Assoluto. È in questo silenzio, che non fu vuoto ma grembo, che nacque Il Taccuino del recluso, edito da Internopoesia nel 2022. Questo testo , con la prefazione di Silvio Aman e la postfazione di Sacha Piersanti, non è una semplice raccolta di versi, ma un laboratorio alchemico dove il dolore è stato tramutato in canto e la solitudine ascetica è divenuta contemplazione dell’infinito.

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L’esordio dell’opera, infatti, è significativo:

Come novizio nell’angusta cella

ogni gesto misuro, ogni respiro.

A tratti sogno, spasimo deliro.

Scelgo in cielo la più remota stella”.

Il poeta, come il mistico, vive nella tensione all’Invisibile. Ma se il mistico si abbandona, come Maddalena de’pazzi che aveva scelto in sposo Gesù, il poeta plasma. Raffo, esteta raffinato, trasforma ogni turbamento in eleganza ritmica, ogni ombra interiore in geometria metrica, ogni malinconia in scintillio verbale. Lontano dalla confessionalità grezza o dalla ribellione sterile, la sua è una spiritualità sottile, che non si grida ma si sussurra tra le rime, delicata come una piuma che sfiora il cuore. È la spiritualità di chi sa che “nell’anima reclusa una Letizia / inattesa talvolta si diffonde”, come annota una delle quartine citate nella prefazione di Silvio Aman.

Nel suo Taccuino, Raffo non annota soltanto versi, ma epifanie: “

Abbiamo infine appreso a valutare

la qualità del Tempo. Ora sappiamo

che la sua vera essenza è circolare.

Sempre allo stesso concetto ritorniamo”.

La cella del recluso, come quella di un monaco, si fa fucina creativa, e ogni parola è frutto di un esercizio di ascesi. L’introspezione non è più ripiegamento sterile, ma passaggio verso l’infinito. È una poesia che non si accontenta di raccontare il mondo, ma lo rifrange come un vetro molato, cogliendone sfumature impalpabili, oscillazioni di luce e ombra che sfuggono all’occhio comune. E, infine, vi sono delle riflessioni sul dolore e sulla condizione umana, con figure trascendentali ed enigmatiche, come angeli che bendano e benedicono l’autore-eremita-esteta e immagini di catarsi violenta che, pur nella loro bellezza, sono efferate: martirio, impalamenti, uncini che, sotto le carni, smagliano un sudario…e nella distruzione della carne ( L’opera al nero alchemica?) si apre la vera libertà.

Raffo non rinuncia mai alla bellezza: la persegue con fedeltà da amante e con la sapienza di un cesellatore. Il suo è un estetismo che non si chiude nel compiacimento formale, ma si fa veicolo di elevazione spirituale. Le rime, spesso alternate e sempre eleganti, sono il respiro stesso dell’anima che cerca — e trova — una via di salvezza nell’arte. La bellezza, in lui, non è ornamento: è trasfigurazione. È la “più sublime altezza” cui tende l’amore stesso, come leggiamo nella lirica VI:
“Era Amore quel futile delirio, / quell’ossessione ostile a ogni bellezza? / Attingere la palma del martirio / non si poteva a più sublime altezza?”

Il Taccuino del recluso è dunque molto più di una raccolta nata da un’emergenza storica: è una testimonianza del potere trasfigurante della poesia, capace di mutare l’angustia della chiusura in apertura celeste. Raffo, nell’ultima parte – Canti della clausura e del deserto, poemetto in quindici stanze- con passo lieve e assorto, danza sulla soglia tra il mondo e l’oltre, tra il dolore e la luce, tra l’umano e il divino, come se fosse un monaco del deserto ricco di un’eredità spirituale ellenica e pagana: ” ” In verità dimoro entro murate stanze il cui ingresso da Gorgoni è vegliato”.

Un poeta-mistico, forse, ma soprattutto un veggente dell’estetico, un uomo che ha fatto sua la tensione verso al sacro ( e sovvien alla memoria il giovane Soren Kiergegaard) per cui la bellezza è atto salvifico.

Liliane Tami