di Historicus
Nel suo libro più influente, “The Rise and Decline of Nations: Economic Growth, Stagflation, and
Social Rigidities – Ascesa e declino delle nazioni: crescita economica, stagflazione e rigidità sociali” (1982), l’economista e scienziato politico Mancur Olson propone una teoria originale e profonda sul perché alcune nazioni, pur avendo istituzioni democratiche, libertà economiche e risorse abbondanti, vanno incontro a declino economico, stagnazione e inefficienza, mentre altre, spesso dopo crisi traumatiche, riescono a risollevarsi rapidamente.
Olson parte da una domanda semplice ma inquietante: perché la crescita economica non è continua
e uniforme? Perché società che sembravano vincenti (come il Regno Unito o l’Italia nel dopoguerra)
finiscono per rallentare o addirittura regredire, mentre altre, uscite da guerre o sconfitte, rinascono
più forti?
Le radici della teoria: l’azione collettiva e gli interessi organizzati
Per comprendere “The Rise and Decline of Nations”, bisogna partire dal precedente libro di Olson, “The Logic of Collective Action – La logica dell’azione collettiva” (1965). In esso, Olson dimostrava che non è affatto scontato che un gruppo agisca nell’interesse collettivo, neppure se è numeroso. I piccoli gruppi con interessi concentrati hanno invece forti incentivi a organizzarsi per ottenere benefici selettivi.
Questa dinamica è il cuore del problema:
Piccoli gruppi organizzati (sindacati specifici, lobbies settoriali, categorie protette) possono
ottenere vantaggi concreti per i propri membri;
I costi di questi vantaggi (es. protezioni, sussidi, regolamenti favorevoli) sono diffusi sulla
collettività, che ha meno incentivi a opporsi;
Con il passare del tempo, questi gruppi si moltiplicano e si radicano, creando rigidità
crescenti nel sistema economico.
Questi gruppi sono chiamati da Olson coalizioni distributive: agiscono per redistribuire risorse a
proprio favore, anziché crearne di nuove.
Il paradosso della stabilità: la crescita dei vincoli nel tempo
Secondo Olson, le società che godono di lunga pace e stabilità politica sono particolarmente
vulnerabili all’accumulo di coalizioni distributive. Con il passare degli anni:
cresce il numero di gruppi organizzati,
aumenta la complessità della regolazione,
diminuisce la flessibilità dell’economia,
si rafforzano le rendite di posizione.
Il risultato è una forma di sclerosi sistemica: la società diventa sempre più difficile da riformare. Le
decisioni vengono bloccate dai veti incrociati, ogni innovazione incontra resistenze, e il
cambiamento è rallentato.
L’effetto cumulativo delle coalizioni distributive
Olson descrive con grande chiarezza il modo in cui l’accumulazione di questi gruppi organizzati
produce effetti negativi:
barriere all’ingresso in settori economici chiave,
protezionismo e sussidi improduttivi,
regole frammentate e corporative,
negoziazioni opache e compromessi tra élite,
bassa produttività e crescita lenta.
Ogni coalizione distributiva riesce a ottenere un piccolo vantaggio per i suoi membri, ma il costo
complessivo per la società è altissimo, perché distorce l’allocazione delle risorse e scoraggia la
competizione.
Il trauma come liberazione: guerre, crisi e ricostruzione
Una delle tesi più provocatorie del libro è che grandi shock politici, guerre o rivoluzioni possono
“resettare” il sistema. Non è un elogio della distruzione, ma una constatazione storica: la sconfitta
militare o il crollo istituzionale possono rompere le coalizioni distributive e aprire lo spazio a
riforme profonde e crescita accelerata.
Esempi emblematici:
Germania e Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale: nonostante la distruzione totale,
entrambi i Paesi conoscono una ripresa spettacolare. Olson spiega che la sconfitta ha
eliminato le vecchie élite corporative e ha permesso l’introduzione di istituzioni più
flessibili.
Italia e Regno Unito: pur formalmente vincitori, non subiscono uno shock istituzionale
comparabile. Le vecchie coalizioni sopravvivono, ostacolano le riforme e contribuiscono
alla stagnazione degli anni ’60-’70.
Stati Uniti: nella seconda metà del Novecento, Olson osserva l’inizio di una crescita delle
rigidità e delle pressioni lobbistiche, che rischiano di portare a un rallentamento strutturale
se non contenute.
I meccanismi invisibili del declino
Olson propone un modello originale per spiegare il declino non come evento improvviso, ma come
processo graduale e cumulativo:
Stabilità politica prolungata;
Crescita di gruppi d’interesse organizzati;
Aumento delle rigidità e delle distorsioni;
Calante efficienza allocativa;
Rallentamento della crescita;
Stagnazione e conflittualità interna.
Il tutto avviene spesso senza che l’opinione pubblica se ne accorga, perché gli effetti sono diffusi e
difficili da attribuire.
Quali rimedi? I suggerimenti (cauti) di Olson
Olson non offre soluzioni semplici. La sua è un’analisi lucida ma pessimista. Tuttavia, indica alcuni
principi per contenere la degenerazione delle coalizioni distributive:
Favorire la concorrenza e il federalismo istituzionale: più giurisdizioni competono, meno è
facile per i gruppi ottenere privilegi permanenti.
Riformare le regole decisionali: rendere più difficile per i gruppi imporre veti o ottenere
trattamenti di favore.
Trasparenza radicale: esporre alla luce del sole i meccanismi di lobbying, le rendite e le
decisioni opache.
Limiti temporali e controlli sulle regolamentazioni: per evitare che norme obsolete diventino
meccanismi di protezione indebita.
Cultura della responsabilità collettiva: promuovere valori che mettano in discussione il
privilegio corporativo.
Lezioni per il presente
Quarant’anni dopo la pubblicazione, il messaggio di Olson è più attuale che mai. In un mondo dove
le democrazie avanzate sono bloccate da conflitti interni, dove le riforme sembrano impossibili,
dove corporazioni, ordini, enti e lobby moltiplicano la complessità delle regole, Olson ci ricorda che
la malattia della stagnazione può nascere proprio dal successo e dalla pace prolungata.
La vera sfida, oggi, è trovare strumenti democratici e trasparenti per rinnovare ciclicamente il
sistema, senza attendere che sia una crisi, una guerra o un fallimento catastrofico a farlo al posto
nostro.
L’opera di Olson si rivela particolarmente attuale nel mondo post-pandemico e multipolare di oggi, dove la proliferazione di organizzazioni sovranazionali e gruppi di pressione globali ha cambiato il modo in cui le nazioni gestiscono il proprio sviluppo economico e la sovranità politica. Secondo la tesi centrale del libro, la crescita delle “coalizioni distributive” (ovvero gruppi organizzati che operano per ottenere benefici specifici a scapito del bene comune) tende a rendere le società meno dinamiche e più soggette al declino.
Oggi queste “coalizioni” assumono spesso forme globali. Entità come l’Unione Europea (UE), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il World Economic Forum (WEF) o il GAVI (l’Alleanza per i Vaccini) influenzano significativamente le politiche dei singoli Stati, spesso in
modi che appaiono poco trasparenti o non democraticamente legittimati. Anche alleanze militari
come la NATO o organismi politici multilaterali come l’ONU possono, in alcuni casi, vincolare la
capacità decisionale nazionale, imponendo agende esterne a governi che risultano sempre più
“obbedienti” a linee guida transnazionali.
L’UE, ad esempio, nel nome dell’integrazione economica e della stabilità, impone criteri, norme di
ogni genere e tasse e contributi che spesso limitano la sovranità legislativa nazionale.
Analogamente, il WEF promuove visioni globali come il Great Reset o l’Agenda 2030, presentate
ufficialmente come iniziative per la sostenibilità, la resilienza e l’inclusione sociale. Tuttavia,
numerosi osservatori critici sollevano dubbi crescenti sul fatto che, dietro questa retorica, si celi una
ristrutturazione sistemica del potere globale, volta a concentrare ulteriormente il controllo politico,
economico e tecnologico nelle mani di ristretti gruppi elitari.
In questo contesto, la “sostenibilità” rischia di diventare non tanto un obiettivo ambientale
condiviso, quanto una parola d’ordine ideologica, utilizzata per giustificare politiche restrittive sui
consumi, sulla proprietà privata (incluso il concetto stesso di “possedere qualcosa”), sulla mobilità e
sulle libertà civili. Questo progetto, spesso sostenuto da potenti alleanze tra élite finanziarie,
tecnocratiche e governi compiacenti, sembra muoversi nella direzione di una gestione sempre più
centralizzata delle risorse e delle scelte individuali, con una crescente pressione verso la conformità
sociale, l’identità digitale obbligatoria, il controllo algoritmico e una progressiva medicalizzazione
della vita quotidiana.
Molti cittadini percepiscono che, in nome di emergenze globali (climatiche, sanitarie, energetiche),
vengano sospese o ridimensionate libertà fondamentali e processi decisionali democratici, con
governi che appaiono più esecutori di direttive internazionali che rappresentanti della volontà
popolare. Il rischio paventato non è teorico: si teme l’instaurarsi di un nuovo modello tecnocratico-
autoritario mascherato da “governance sostenibile”, in cui le popolazioni vengano gradualmente
spinte ad accettare una realtà sorvegliata, digitalizzata e controllata, con sempre meno spazio per il
dissenso e la scelta autonoma.
Olson ci offre una chiave di lettura importante: quando i gruppi organizzati sono in grado di influenzare in maniera stabile e continua l’apparato normativo e amministrativo di una nazione (o di più nazioni), si verifica una “sclerotizzazione istituzionale”. Le élite organizzate difendono i propri privilegi, ostacolando l’innovazione e la concorrenza e riducendo la capacità di adattamento degli Stati. In questo scenario, i governi finiscono spesso per privilegiare gli interessi delle élite globali rispetto a quelli dei cittadini-elettori, giustificando restrizioni civili, censura informativa o politiche sanitarie coercitive come “necessarie” per il bene comune.
Conclusioni: Olson nel XXI secolo
“The Rise and Decline of Nations” è un libro che unisce economia, politica e storia in un’analisi
coerente e potente. Olson ci invita a vedere oltre gli slogan, a diffidare delle interpretazioni
semplicistiche e a riconoscere la forza sotterranea degli interessi organizzati come uno dei più
grandi ostacoli al benessere collettivo.
In un mondo che cambia rapidamente, ma che è sempre più difficile da riformare, leggere Olson
significa capire perché la crescita è fragile e perché la libertà economica va difesa ogni giorno,
anche dai suoi presunti alleati.
Se Olson avesse osservato il mondo di oggi, avrebbe probabilmente ampliato il suo concetto di
“coalizioni distributive” includendo non solo sindacati, associazioni di categoria o lobby nazionali,
ma anche reti globali di influenza che operano su scala sovranazionale e spesso fuori dal controllo
democratico diretto.
Il pericolo non è solo economico ma politico e sociale: la crescita della burocrazia internazionale,
delle lobby transnazionali e degli accordi multilaterali vincolanti può contribuire a una forma moderna di declino istituzionale, dove i popoli si sentono sempre meno rappresentati e sempre più vincolati da decisioni prese “altrove”. Questo può portare a un’erosione dei diritti civili, alla restrizione delle libertà individuali (come accaduto con alcune misure pandemiche) e a un indebolimento della partecipazione democratica reale.
Il messaggio implicito di “The Rise and Decline of Nations” è chiaro: le nazioni prosperano quando sono capaci di adattarsi, di rinnovare le proprie istituzioni e di resistere alla cattura da parte di interessi organizzati. Il declino, invece, si manifesta quando le strutture di potere diventano troppo statiche, autoriferite e chiuse al cambiamento.
In un mondo globalizzato, questo richiede una nuova forma di vigilanza democratica, capace di:
Riconoscere i legittimi benefici della cooperazione internazionale senza cedere la sovranità
a strutture opache.
Limitare l’influenza eccessiva delle lobby globali sulle politiche pubbliche.
Salvaguardare i diritti civili contro ogni forma di controllo paternalistico o tecnocratico.
In definitiva, Olson ci offre un monito: la complessità del presente non deve diventare alibi per la deresponsabilizzazione dei governi, né tantomeno per la marginalizzazione dei cittadini. La rinascita o il declino delle nazioni dipende oggi, più che mai, da quanto riusciranno a bilanciare apertura e sovranità, innovazione e libertà, cooperazione e autodeterminazione.