Hammamet
Sono qui, ad Hammamet.
Il sole scotta come allora, ma oggi non scalda più. Lo sento sulla pelle, sulle ossa, come un ferro che marchia. È il sole di un esilio, non di una vacanza.
Dicono che io sia fuggito. No. Io non sono fuggito da niente.
Sono andato via da un Paese che non voleva più ascoltare, che aveva bisogno di un colpevole, di un simbolo da sacrificare per sentirsi pulito. Quel simbolo sono stato io.

Per anni ho servito l’Italia. Ho fatto quello che tutti facevano, quello che tutti sapevano, ma che nessuno aveva il coraggio di ammettere. Il sistema del finanziamento ai partiti non l’ho inventato io: ci sono nato dentro. L’ho solo reso più efficiente, più moderno, più adatto ai tempi. Ma poi, quando è crollato tutto, hanno fatto finta di cadere dalle nuvole. Hanno puntato il dito, e io sono diventato il male assoluto.
Mi hanno condannato — cinque anni e sei mesi per una tangente dell’ENI, quattro anni e mezzo per la metropolitana di Milano. Dieci anni in tutto.
Dieci anni per aver tenuto in piedi un partito, per aver fatto politica come tutti gli altri. Ma io ero Craxi, e dovevano abbattermi.
Ricordo ancora quella folla davanti all’hotel Raphael, le monetine che volavano, gli insulti, la rabbia cieca. Mi guardavano come si guarda un mostro, come se io solo fossi responsabile di un sistema marcio. Ma molti di quelli che gridavano il mio nome avevano beneficiato di quel sistema. È questo che mi brucia ancora oggi: l’ipocrisia.
Mi sono ammalato qui, lontano da tutto. Gli amici veri si contano sulle dita di una mano: pochi, fedeli, coraggiosi. Gli altri mi hanno dimenticato, o si sono rifatti una verginità sulle mie spalle.
Ogni tanto mi arriva un giornale dall’Italia. Parlano ancora di me come di un “latitante”, un “corrotto”, un “fuggitivo”. Nessuno dice “uomo”, “padre”, “politico che ha sbagliato ma che ha anche costruito”. No. Solo mostro.
Morirò qui, lo so. Ma non ho paura. Ho paura solo che il mio Paese dimentichi tutto: le battaglie vinte, le riforme, la dignità restituita al socialismo italiano.
Forse un giorno qualcuno leggerà le carte con meno rabbia, con più onestà.
Forse allora capiranno che non tutto è stato sporco, che non tutto è stato colpa mia.
Intanto resto qui, con il mare davanti e il vento che porta l’eco lontana di un Paese che non mi vuole più.
L’Italia mi ha condannato, ma non potrà mai cancellare ciò che sono stato.