Milano, 12 dicembre 1969.
È un venerdì pomeriggio freddo, umido, e la città brulica del traffico dell’ora di punta. Alle 16:37, un boato squarcia il centro. La Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, viene devastata da un’esplosione. I vetri volano in strada, il pavimento si solleva, le pareti crollano. In pochi istanti, diciassette persone muoiono, ottantotto restano ferite. I corpi, la polvere, il sangue, le sirene: Milano è nel caos.
Le prime notizie si diffondono rapide e confuse. Si parla di incidente, poi di attentato. Nel Paese già attraversato da tensioni sociali e politiche — scioperi, manifestazioni, scontri tra studenti e forze dell’ordine — la paura si trasforma subito in sospetto.
La polizia si muove in fretta: rastrellamenti, interrogatori, retate negli ambienti anarchici. In poche ore vengono fermati decine di militanti. Tra loro c’è Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, figura nota per la sua calma e il suo impegno nel movimento. C’è anche Pietro Valpreda, ballerino e anarchico romano, che diventerà presto il nome più ripetuto dai giornali.
Pinelli viene portato nella Questura di Milano, al quarto piano, nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. Per tre giorni viene interrogato, senza interruzioni significative, mentre la stampa, alimentata da voci di corridoio, comincia a parlare di “pista anarchica”.

La notte del 15 dicembre, alle 0:15, accade qualcosa di inspiegabile. Pinelli precipita dalla finestra dell’ufficio di Calabresi e muore nel cortile della Questura. La versione ufficiale parla prima di suicidio, poi di “malore attivo”. Ma nessuno ci crede davvero. Il movimento anarchico grida all’omicidio, la sinistra chiede verità, mentre la destra e parte dei media difendono la polizia.
Intanto, Valpreda viene indicato come l’esecutore materiale della strage. “È lui l’assassino!” titola la stampa, senza prove. Il Paese è sconvolto. Ma pian piano, col passare dei mesi, emergono crepe nella versione ufficiale. Le piste si moltiplicano, gli indizi si spostano verso ambienti neofascisti e settori deviati dello Stato.
Piazza Fontana diventa allora la madre di tutte le stragi, l’inizio di quella stagione che sarà ricordata come gli anni di piombo.
Pinelli resta il simbolo dell’innocente travolto da una giustizia cieca; Valpreda, dell’uomo accusato e condannato prima ancora del processo.
E quel boato, quel 12 dicembre del 1969, continuerà a risuonare per decenni — come un’eco di dolore, di mistero e di verità negate.
E Pietro Valpreda, fu processato?
Pietro Valpreda ebbe una vita segnata per sempre da quella bomba che non aveva mai messo.
Dopo la strage di Piazza Fontana, fu arrestato il 15 dicembre 1969 e accusato di essere l’esecutore materiale dell’attentato. Il principale indizio contro di lui era la testimonianza di un tassista, Cornelio Rolandi, che disse di averlo accompagnato nei pressi della banca poco prima dell’esplosione. Quella testimonianza, in seguito, si rivelò piena di incongruenze, ma intanto la stampa lo aveva già trasformato nel “mostro anarchico”.
Valpreda rimase in carcere per oltre tre anni in attesa di processo, in un clima di odio e sospetto. Solo nel 1972 la Corte costituzionale stabilì che non si poteva tenere in prigione un imputato senza processo per così tanto tempo, e lui fu finalmente scarcerato.
Il processo, lungo e tormentato, cambiò più volte città e imputati. Alla fine, dopo decenni di indagini, depistaggi e assoluzioni, Valpreda fu assolto definitivamente nel 1985, perché totalmente estraneo alla strage. La verità processuale indicò la matrice neofascista dell’attentato, con responsabilità riconducibili a gruppi dell’estrema destra come Ordine Nuovo, ma nessuno pagò mai davvero.
Dopo la sua liberazione, Valpreda visse una vita modesta. Aprì un piccolo bar a Roma, nel quartiere di Campo de’ Fiori, e poi un negozio di antiquariato. Continuò a professarsi anarchico, ma rifiutò sempre l’odio o la vendetta: chiedeva solo giustizia e memoria.
Negli anni ’90 e 2000 scrisse anche dei libri autobiografici e alcuni gialli, in parte ispirati alla sua esperienza.
Morì il 6 luglio 2002, a 69 anni, nella sua città, Roma.
Fino all’ultimo, continuò a dire una frase che riassume tutta la sua vicenda:
“Io sono un uomo libero. Ma lo Stato mi ha rubato tre anni di vita.”