Germania, un rapper contro la guerra: il caso FiNCH e il tabù del dissenso sul riarmo europeo
In Germania il clima politico e culturale che accompagna il riarmo europeo sembra lasciare sempre meno spazio al dissenso. Chiunque osi mettere in discussione la narrativa dominante viene rapidamente sospinto ai margini del dibattito pubblico, quando non direttamente delegittimato. L’ultimo caso emblematico è quello del popolarissimo cantante e rapper FiNCH, finito al centro di una violenta polemica per aver pubblicato un singolo apertamente antimilitarista: No Desire for War.
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FiNCH – KEiN BOCK AUF KRiEG (Official Video) – YouTube
Il brano – che invoca esplicitamente la pace e rifiuta la logica dell’escalation armata – è accompagnato da un videoclip tanto semplice quanto disturbante. FiNCH canta insieme a bambini vestiti con uniformi militari, disposti in coro e diretti da una figura adulta che, per postura, pettinatura e atteggiamento, richiama in modo inequivocabile Friedrich Merz, mentre sullo sfondo campeggia una gigantesca bandiera tedesca. L’immaginario è volutamente provocatorio: l’infanzia come anticamera della militarizzazione, la nazione come palcoscenico simbolico di una pedagogia bellica.

Il messaggio è chiaro e difficilmente equivocabile: la normalizzazione della guerra passa anche attraverso la cultura, l’educazione e l’estetica patriottica. Ed è proprio questa chiarezza ad aver scatenato reazioni durissime. Tra le più aggressive spicca quella di Marcel Bohnert, alto ufficiale delle forze armate tedesche, che ha liquidato il brano con parole sprezzanti: «Grandioso. I volenterosi aiutanti di Putin – e il Cremlino balla».
Non si tratta di un commento qualunque. Bohnert non è un semplice militare, ma una figura che incarna l’intersezione tra vertici delle forze armate, comunicazione strategica e costruzione del consenso. Il suo intervento rivela un meccanismo ormai ricorrente: l’equiparazione automatica tra pacifismo e tradimento, tra critica al riarmo e complicità con il nemico. In questo schema binario, non esiste spazio per una posizione autonoma, europea o semplicemente umana: o si è per la guerra, o si è “sgherri di Putin”.
Il caso FiNCH mostra come la musica popolare – proprio perché capace di raggiungere un pubblico vastissimo e trasversale – diventi un terreno particolarmente sensibile. Un rapper che parla di pace non è un intellettuale di nicchia facilmente ignorabile, ma una voce che può incrinare il consenso, soprattutto tra i giovani. Da qui la necessità, per l’apparato politico-militare, di colpire non tanto il contenuto dell’opera quanto la legittimità morale dell’autore.
Eppure, No Desire for War non è un inno ideologico, né una propaganda filorussa. È, al contrario, una presa di posizione elementare e radicale: il rifiuto della guerra come destino inevitabile. In un’Europa che investe cifre colossali nel riarmo e prepara le società a una lunga stagione di conflitto, questa semplicità diventa sovversiva.
Il paradosso è evidente: mentre si invoca la difesa dei “valori europei”, si restringe lo spazio della libertà di espressione proprio quando essa tocca il nodo più delicato, quello della guerra. Il singolo di FiNCH, al di là del suo valore artistico, funziona allora come uno specchio: riflette un’Europa sempre più intollerante verso chi osa ricordare che la pace non è un segno di debolezza, ma una scelta politica, culturale e morale.
In tempi di tamburi di guerra, una canzone per la pace diventa un atto di resistenza. Ed è forse proprio questo, oggi, a renderla così pericolosa.