Pubblichiamo in forma integrale e senza alcun commento il resoconto della prima serata di dibattito del “Tavolo della crisi”, svoltasi il 3 dicembre 2012 nell’auditorium dell’USI (tratto dal sito di Giovanna Masoni Brenni). Cari amici di Ticinolive, sappiamo che siete ferratissimi tanto in economia quanto in politica. La cosa che più ci interessa in questo momento è la vostra opinione! (chiamatelo pure “sondaggio” se così vi piace).



«ANALISI DEL MERCATO DEL LAVORO E MISURE PER L’OCCUPAZIONE»
Serata nr. 1, coordinatore Giancarlo Dillena

Giovanna Masoni Brenni (introduzione)

Meinrado Robbiani (introduzione)

Emanuela Capra (Branch Manager di Luisoni Consulenze, Lugano)

Liala Cattaneo (Coordinatrice del Laboratorio di psicopatologia del lavoro, Viganello)

Denise Chervet (Segretaria centrale della Associazione Svizzera degli Impiegati di Banca – ASIB)

Isabelle Widmer (Head of Human Resources di Banca Arner, Lugano).


Giovanna Masoni Brenni

Ringrazia i relatori e spiega le ragioni dell’iniziativa, che parte dall’analisi di una situazione che preoccupa (e che è stata descritta nella pubblicazione di Alberto Di Stefano). «Dobbiamo esaminare quanto accade senza barriere politiche né partitiche. Ragionare così significa ad esempio che la sinistra non può più difendere ciò che non esiste e che non si possono tenere in vita artificialmente posti di lavoro o che serve un’amnistia; oppure significa che la destra deve comprendere le ragioni sociali e le dimensioni collettive della crisi».

Spiega che un simile progetto richiede impegno e unione di forze e deve sfociare in proposte di misure concrete, forse di un messaggio anticrisi. Chiede ai relatori di tenersi ancorati allo «spirito del tavolo», di «guardare avanti e dirci quali ipotesi siano praticabili» pur sapendo che la piazza finanziaria ticinese è piccola, quali siano «le misure realizzabili dalle diverse angolazioni». Chiede infine la collaborazione del pubblico interessato «perché ogni idea nuova è la benvenuta».

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Meinrado Robbiani

Esordisce spiegando come sia «superfluo evidenziare che il destino della piazza finanziaria genera riverberi per tutti» a partire dalle conseguenze personali o dall’impatto sulle entrate fiscali. Sostiene che le difficoltà sono «frutto della congiunzione del sisma internazionale e delle pressioni sul segreto bancario» e che di fronte a tali difficoltà non si possa assistere in modo passivo.

Secondo Robbiani il problema di natura occupazionale è primario.

Individua «tre campi di interrogativi»:

1) Il profilo quantitativo dell’occupazione.

Ci sono dati «inquietanti» con contrazioni prefigurate da 500 a 2mila unità. È davvero così? Si tratta di uno scenario completo o con Rubik si aggiungeranno ripercussioni ulteriori? E l’occupazione subirà altre pressioni dall’introduzione di aggiornamenti tecnologici? Ancora: come agisce il contesto della libera circolazione sulla piazza? E come «considerare l’esigenza di inserire giovani in questo settore decisivo»?

2) Quali strumenti possono governare questi processi di adattamento.

Si chiede quali organismi possano incanalare e gestire questo processo e come fare affinché domanda e offerta si incontrino. Si domanda poi quale ruolo possano svolgere l’ABT e il CSB in relazione all’esigenza di riqualificazione professionale. Altra questione: «È opportuno dare luogo, nell’ambito del CCNL, a un livello intermedio cantonale per essere più efficaci negli interventi a salvaguardia del lavoro? E come è possibile coinvolgere in tutto questo il settore parabancario?».

C) Le misure dirette e concrete.

Si chiede se sia possibile agire soprattutto sulla durata e sul tempo di lavoro utilizzando di più il part-time o la diminuzione generalizzata dell’orario e quali siano i freni rispetto a questa ipotesi. Pone il problema del sostegno psicologico alle persone che perdono il lavoro.

«Dobbiamo identificare suggerimenti molto concreti, vogliamo arrivare a un catalogo di proposte. Un territorio responsabile non può trovarsi impreparato tanto più quando sono in gioco i destini delle persone».

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Denise Chervet

«La paura sta paralizzando» il mondo bancario, «ci sono ristrutturazioni, si vedono colleghi che non tornano al lavoro. Se c’è questa paura è perché le banche non hanno cultura e tradizione di scambio di notizie con i partner sociali, non hanno abitudine a sviluppare informazioni chiare né ad accettare critiche che siano costruttive». Gli impiegati hanno lo stesso obiettivo dei datori di lavoro, vogliono che la loro impresa abbia successo. Ma oggi manca fiducia negli impiegati. «Noi come partner sociali troviamo troppo spesso interlocutori che non credono più nel dialogo, non lo vedono come elemento importante per la Svizzera. Il dialogo sociale serve a discutere ma per discutere devi avere l’impressione di essere ascoltato».

Che cosa possiamo fare? «È chiaro che il settore sta vivendo una fase di ristrutturazione, forse domani ci saranno meno posti. Ma questo passaggio deve essere fatto gradualmente. Spesso le banche ristrutturano in fretta, senza business cases ben costruiti e poi si accorgono di aver licenziato le persone di cui avevano bisogno».

Ciascuna ristrutturazione ha effetti anche per chi rimane in banca. «Le politiche del personale messe in atto sono pericolose, gli obiettivi fissati sono troppo alti e non possono essere raggiunti senza pericolo».

Nelle banche si lavora contrattualmente 42 ore ma si fa anche molto straordinario. Secondo l’ufficio di Statistica della Confederazione quello bancario è il settore in cui si lavora di più.

Prima di licenziare si deve valutare anche il rischio salute. Il problema di burn out è molto grande nelle banche.

«Noi chiediamo migliori condizioni di lavoro ma serve anche trasparenza. Le banche sanno di dover licenziare ma lo fanno troppo spesso senza procedura di consultazione. In questo senso ringrazio il Consiglio di Stato ticinese che vuole fare il monitore delle condizioni interne delle banche».

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Isabelle Widmer

Sostiene che la crisi della piazza finanziaria non è recente. «Anche nel 2005 si parlava di strategia di difesa della piazza finanziaria, anche nel 2008 si parlava di cambiamento di rotta, differenziazione dal private banking e di esplorazione di nuovi mercati. Il problema è che non si è mai trovata una strategia giusta per affrontare questa crisi».

Sostiene che l’impatto di Rubik, sarà «pesante», le banche saranno costrette ad acquistare software di gestione dai costi milionari. Costi che saranno recuperati licenziando il personale.

Afferma che i motivi delle ristrutturazioni sono diversi. «Ci sono banche che riducono perché devono essere vendute» ma in generale le riduzioni di personale non hanno alle spalle «statement chiari. Chi riduce oggi in Ticino non sa perché deve farlo. E il personale ha paura perché non ci sono comunicazioni chiare, così come mancano gli obiettivi chiari».

Critica duramente il gruppo di lavoro “Ticino for Finance”: «È attivo dal 2011 ma che cosa ha detto questo gruppo di persone sin qui?».

Afferma che la crisi e la perdita di fiducia accentua un altro problema, ovvero la mancanza di innovazione. «Una delle cose più gravi è che si frena completamente l’innovazione. Chi lavora con paura non propone nulla di nuovo, blocca l’innovazione anche nelle piccole cose».

Sostiene in conclusione che servono persone capaci di decidere e serve soprattutto una strategia «che adesso non c’è», oltre alla «rimotivazione delle persone».

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Liala Cattaneo

Afferma di voler fare una fotografia dell’utenza del Laboratorio, «che accoglie persone che soffrono per situazioni di questo genere». Il ricorso al Laboratorio è in aumento ma vi è anche un cambiamento dell’utenza: «Sette, otto anni fa si rivolgevano a noi disoccupati o persone in assistenza. Oggi l’80% di chi viene da noi ha un lavoro e questo è un dato sconvolgente». Tra chi ha un lavoro nell’84% dei casi è impiegato con un contratto a tempo indeterminato. «Anche il contratto in sé non è più garanzia di protezione», si mette in moto quella che gli studiosi chiamano «destabilizzazione degli stabili», ovvero di chi «ha paura di perdere il lavoro».

Si tratta di una «paura che paralizza» e impedisce di pianificare il proprio futuro (figli, casa) e di pensare più in la del proprio domani. Molti non sanno reinventarsi dal punto di vista della biografia personale.

Spiega quindi che occorrerebbe lavorare nell’ambito della cosiddetta “flessibilità buona”.

«I nostri utenti sono preoccupati per il lavoro e queste preoccupazioni fragilizzano la salute mentale, con disturbi del sonno, ansia, nervosismo, irritabilità. Grande conflittualità e situazioni di tensione si vivono anche nelle banche con un degrado generale dal punto di vista umano sui luoghi di lavoro dovuta ad esempio alle richieste di performance elevate che hanno progressivamente indebolito la solidarietà tra lavoratori. Basta un nulla per far scattare situazioni conflittuali, in un contesto di tagli le persone non si fanno scrupoli per mantenere il proprio lavoro. Il mobbing diventa un fenomeno reale ed è figlio di questa congiuntura».

Descrive situazioni difficili. Persone con la lettera di licenziamento in mano nella fascia dai 40 ai 50 anni, «la più significativa», dominate dalla «paura di non trovare un posto equivalente a quello che si aveva prima».

Tutto questo provoca «Isolamento sociale e vergogna che poi va a minare la salute mentale».

Descrive il concetto di “Revolving door”, ovvero la precarietà come «giro dal quale è difficile uscire. La precarietà del lavoro si traduce in precarietà della vita e in un disagio che diventa malattia. I giovani sono più abituati alla flessibilità e alla precarietà, avanzano a slalom nella vita, sanno di non avere un posto per la vita».

Insiste sulla necessità di portare il lavoro del Laboratorio nelle aziende. «Bisogna andare dove c’è il disagio. Sappiamo che le imprese devono fare profitto ma le imprese possono e devono curare il personale. Il personale contento lavora meglio ed è più disponibile».

Avanza la proposta di «Coniugare la flessibilità alla sicurezza sociale potenziando gli ammortizzatori sociali che permettono di sopravvivere alla mancanza di lavoro».

Insiste nel condannare l’abuso dei contratti atipici che danno luogo alla precarietà. Lancia un appello alle aziende affinché non facciano dei contratti atipici il futuro modello contrattuale e chiede di rimettere il CCNL al centro del lavoro.

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Emanuela Capra

Spiega come vi sia stata una riduzione progressiva dei dipendenti nel settore dal 2007 in avanti e come oggi vi siano «Disoccupati ultraformati e ultraspecializzati, con uno o più master, che hanno difficoltà a essere collocati nelle banche».

Afferma che due sono le questioni in campo: il problema degli stipendi elevati e il dumping. «Ci sono situazioni non giustificate con segretarie di direzione pagate 130mila franchi. Siamo fuori da visioni realistiche delle cose. Abbiamo anche situazioni di dumping salariale che fino a pochi anni fa riguardava l’industria ma che oggi colpisce l’azienda banca. Serve una giusta strada di mezzo tra il dumping e lo stipendio troppo elevato».

Dice che il mercato del lavoro è cambiato profondamente. La crisi ha colpito anche le piazze di Ginevra e di Zurigo e la «concorrenzialità» è cresciuta.

Si dice quindi «stupita» dalla «tendenza a non voler abbassare richieste salariali e posizioni di privilegio».

Il dipendente bancario vede la situazione peggiorare ma non ha flessibilità. Difficile dire quale sarà soluzione, forse il web management.

Dal 2005-2006 si pensa di diversificare ma il benessere crea pigrizia e non ci si è mai mossi in una direzione precisa.

Afferma che molti clienti italiani oggi chiedono di delocalizzare: «Un buon 50% di questa clientela cercherà altre piazze, non vogliono pagare ulteriori imposte e vogliono avere un segreto garantito. Vorrei non essere pessimista ma bisogna essere realisti. Pensare a un settore bancario diverso. Abbiamo fatto errore grave a puntare sul private banking. Non siamo stati lungimiranti a non puntare sulle aree corporate, retail».

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Denise Chervet

Affronta il problema della crisi del sindacalismo in banca. Gli impiegati, dice, hanno una coscienza professionale molto alta ma prevale tra loro una cultura individualistica.

Tuttavia, «Non c’è lavoro individuale nelle banche, tutti dipendono dai colleghi».

Le banche hanno favorito questa attitudine individualistica, «lo fanno ancora adesso in modo selvaggio. I metodi di valutazione non sono umani perché mettono i dipendenti l’uno contro gli altri. Hanno una grande responsabilità nell’aver voluto costruire il modello del massimo guadagno possibile. Grandi stipendi, grande valore della persona. Adesso è molto difficile cambiare questa cultura».

Richiama le banche a una precisa responsabilità sociale.

«La banca non esiste per dare i bonus ai direttori ma esiste per offrire servizi e dare lavoro di qualità. Alcuni dipendenti hanno stipendi elevati ma il vero problema è la forchetta degli stipendi che è la più alta tra i vari settori. Anche la differenza di stipendi tra uomini e donne è molto grande. C’è una cultura del testosterone nelle banche, una cultura per cui si deve camminare sugli altri per andare avanti. Una cultura che oggi distrugge le banche».

Afferma che in molte banche il CCNL non è firmato, servirebbe invece farlo per mettere insieme attorno a un tavolo datori di lavoro e impiegati.

«Le banche fanno credere di sapere dove vanno ma non lo sanno».

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Isabelle Widmer

Afferma che le decisioni devono essere sempre prese dai Cda perché poi si declinino all’interno delle strutture. È chiaro però che serve una strategia condivisa anche tra le varie banche.

Ci sono state molte riunioni al CSB pure su questo tema «ma c’è omertà mentre io ritengo che dobbiamo parlarne. Le banche dovrebbero avere un organismo interno per trovare soluzione. Serve cioè una collaborazione tra banche».

Afferma che il problema non è quello dei salari ma la strategia.

Dice di aver proposto di tornare al salario di base, senza bonus, come accadeva negli anni ’90.

«Il salario medio è aumentato molto, abbiamo ridotto il personale tenendo i manager ma non ha senso. La prossima riduzione dovrà prevedere anche il taglio dei manager».

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Emanuela Capra

Sostiene che la realtà è comunque difficile e che quando si esce dal lavoro a 50 anni anche la riqualificazione non è semplice. Chi è infatti disposto a quell’età a tornare sui banchi di scuola?

Afferma che una strada provare è tuttavia la verifica di quali risorse e capacità abbiano le persone che perdono il lavoro e presenta un caso «sorprendente» di ex manager che ha scoperto di avere capacità manuali e ha aperto una piccola sartoria.

Bisogna quindi incentivare l’imprenditorialità, cosa che peraltro il Cantone fa già.

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Intervento dal pubblico (Martino Rossi)

Si rivolge a Isabelle Widmer elogiando la franchezza ma chiede come mai la situazione sia così bloccata pur essendoci la consapevolezza di una situazione difficile.

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Isabelle Widmer

Risponde dicendo che «Quando c’è una ristrutturazione non è mai chiaro quale sia il fine di questa ristrutturazione».

In Ticino soltanto le banche che hanno sede nel Cantone hanno anche direzioni personale guidate da manager, diversamente spesso il capo del personale ha funzioni amministrative ed esegue ordini, «non gli viene spiegato il perché licenziare».

Ammette che alcuni interrogativi sono rimasti senza risposta e altri devono forse essere posti. «Se ci fosse stata una strategia oggi sapremmo perché è stata fatta una grossa ristrutturazione nel 2001-2002. Qualcuno sa per quale motivo c’è stata questa ristrutturazione? Era colpa dell’1 settembre? Mi auguro che chi deve portare a termine la ristrutturazione chieda almeno il perché».

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Denise Chervet

Spiega che «Con la procedura di consultazione gli impiegati potrebbero chiedere le informazioni» di cui ha parlato prima Isabelle Widmer.

Ribadisce come non si possano «cercare soluzioni individuali ma collettive, serve il dialogo sociale, lo dico perché nessuno lo crede. Non cerchiamo miracoli ma coraggio. Anche i dirigenti hanno troppa paura e hanno trasferito questa paura ai loro impiegati. Siamo umani non per avere paura ma per avere coraggio».

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Intervento dal pubblico

Non c’è in Svizzera la prassi di far sedere il sindacato nei Cda come accade in Germania. Una simile soluzione potrebbe funzionare proprio per mettere in moto il dialogo sociale.

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Denise Chervet

Risponde dicendo di condividere l’idea e affermando che «Oggi nelle banche, se si può, si evita di parlare con il sindacato degli impiegati. Per farci sentire dobbiamo forza un po’ la porta. Le commissioni sono composte di impiegati che hanno paura di perdere il lavoro, la critica è quindi un po’ più dolce. Ma l’assenza di senso critico è un problema, perché le banche sono un sistema chiuso e come tutti i sistemi chiusi non vogliono vedere i problemi»

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Liala Cattaneo

Torna sull’argomento degli stipendi troppo elevati. Afferma che «Bisognerebbe tornare a un fare banca normale, con stipendi normali anche se superiori ad altre categorie. Il fatto è che bisogna essere più umili, qualità non troppo diffusa nel settore».

Presenta poi due casi reali che costituiscono un esempio concreto di cosa sia possibile fare per evitare licenziamenti: «C’è un direttore di banca, non ne farò il nome, che per non licenziare si è ridotto lo stipendio. Dopo di lui, tutti gli impiegati hanno seguito il suo esempio. Altro caso: un team attivo in Borsa si è ridotto il salario affinché un collega non fosse licenziato».

Ribadisce come il part-time in Ticino sia «molto meno utilizzato rispetto ad altri Cantoni».

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Intervento dal pubblico (Loretta Colonna)

Interviene dal pubblico un’ex impiegata che racconta il suo caso. «Ho 52 anni e sono stata licenziata dopo 33 anni di lavoro in banca, ero responsabile di back office. Ho inoltrato 25 richieste di lavoro, ho ricevuto 7 risposte negative, sono stata chiamata per un colloquio. Non ho chiesto soltanto in banca né ho parlato di aspetto economico con nessuno. Vorrei soltanto farmi conoscere. Non si può quindi parlare di persone che non hanno umiltà. Come me sono in tanti. Purtroppo è in crisi tutto il settore, non soltanto le banche. Aggiungo che sono nauseata. Non c’è più dialogo, ho tentato una discussione corretta con i miei datori di lavoro ma non mi hanno nemmeno ascoltata. Ho scritto due lettere al Cda, non ci ha nemmeno risposto».

La signora propone l’estensione dell’articolo 335d della Legge federale di complemento del Codice Civile svizzero (“licenziamento collettivo”) alle imprese con meno di dieci dipendenti e un intervento a livello cantonale con la modifica dell’articolo 21 della Legge ticinese sul rilancio dell’occupazione e sul sostegno ai disoccupati.

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Denise Chervet

Risponde rilanciando la proposta della sua associazione di vietare alle banche che danno dividendi e bonus ai propri manager di licenziare i dipendenti. Ribadisce la necessità di un «CCNL per tutti. Penso che si debba capire che questa situazione non è una fatalità, non è vero che l’unica soluzione sia licenziare».

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Intervento dal pubblico

Ringrazia Giovanna Masoni per l’iniziativa che giudica importante. Afferma che oggi servono metodi incisivi per arginare la crisi, non si può continuare nella falcidie del personale e nella distruzione del know how condotto dal management.

Sostiene che anche la politica deve scendere in campo fuori dai vincoli di protezione della banche. Non è tollerabile che non ci sia un dialogo sociale. Invoca «una modifica del diritto del lavoro».

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Intervento dal pubblico

Si sofferma sul “dolore” del vissuto personale ma si dice convinto che non si possa affrontare «Il lato sbagliato del problema. C’è una questione di competitività, ci sono “imposizioni” che gravano sul sistema della piazza. Sono un dato di fatto, giusto e sbagliato che sia. Il punto quindi non è fare battaglie di retroguardia o imporre rigidità al sistema, quanto piuttosto

il ritorno di competitività. Oggi si parla di quarta Svizzera e di quinta Svizzera, le fiduciarie si stanno delocalizzando. Ci sono processi in corso e una strategia di sistema che bisognerebbe saper leggere. Serve quindi che il sistema bancario sia l’attore principale della strategia».

Afferma che il grosso della crisi deve ancora arrivare. «Il taglio di 2mila posti è realistico ma se la BSI sarà acquistata da una banca che ha già una corporate sul territorio ci saranno altre centinaia di licenziamenti».

Si lamenta dei corsi di qualificazione che sono «vecchi, ancestrali» e «non danno le competenze che servono».

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Intervento dal pubblico (Paolo Bernasconi)

Torna sul caso della signora che ha raccontato il suo licenziamento affermando che «non è isolato». Ricorda come il tavolo sia «un punto di pressione e di opinione» finalizzato a «individuare soluzioni praticabili».

Sostiene che le banche dovrebbero comunicare agli enti pubblici e all’ABT i piani di licenziamento.

Ironizza sulla proposta lanciata da alcuni politici locali di acquisto della BSI da parte del Cantone: «Uno dei nostri problemi è che abbiamo come interlocutori “Quelli della Notte”».