Spettabile redazione,

invio questo contributo all’informazione (e al dibattito) sapendo che  solleticherà annose reticenze se non addirittura irrevocabili censure. È un vostro diritto contro il quale non ho “armi” per oppormi. Resto però convinto che sugli innominabili “anni di piombo” italiani si sia finora scritto troppo e male. Non sarebbe quindi fuori luogo cominciare a cercare di capire cosa veramente è successo, perché è capitato e chi sono stati i protagonisti. Chiamarsi fuori ripetendo la filastrocca della “banda di assassini” non porta certo acqua al giornalismo storico, professionale e documentato. Saluti.  Carlo Curti


Pubblichiamo questo testo per il suo indubbio interesse, pur distanziandocene in modo assoluto. “Banda di assassini”, caro ospite Curti, non è una filastrocca ma un’amara realtà. Si può scriverne “bene” e magari vincere un premio di giornalismo, ma tale resta, al di là dei romanticismi (fuori luogo) e delle filosofie. L’uomo del quale Curti sembra parlare con comprensione e simpatia è un criminale condannato all’ergastolo, i cui misfatti sono stati comprovati. [fdm]

Prospero Gallinari: Fine di una storia. La storia continua.

Alcune considerazioni dopo la sua morte.

L’ex dirigente delle Brigate Rosse se ne è andato la mattina del 14 gennaio a Reggio Emilia, per arresto cardiaco. Ergastolano in libertà condizionata per gravi problemi di salute, stava recandosi al lavoro come autista di una piccola azienda reggiana. “Gallo” era in detenzione illimitata dal 1979 e durante tutto questo periodo solo riflessioni sull’esperienza armata che l’ha coinvolto, sulle cause dell’assalto al cuore delle Stato e della sua sconfitta, non una parola sui pentiti, i dissociati o gli “irreperibili” che l’onda di quel periodo a tracimato. Stesso discorso per le richieste di riduzione di pena, grazia o benefici penitenziari.

Per i giornali e tutti i tg, invece, Prospero “se n’è andato con i suoi segreti”. Nessuno ha provato a chiedersi come mai un uomo con la sua storia, della sua età e con tre infarti sul cuore, se ne stesse andando tutte le mattine a lavorare, per uno stipendiuccio da precario o quasi, uscendo da una casa popolare? Chi detiene segreti importanti o muore presto o viene ricoperto d’oro, non fa una vita così, no? Ma l’informazione, in Italia, è diventata un semplice copia-incolla della “verità” ministeriali e finanziarie. È il frutto della dietrologia di oggi, per cui è conveniente lasciare la storia di questo paese avvolta nella nebbia anche quando la nebbia non c’è. A un certo punto era nata persino una dietrologia di destra, che puntava ovviamente e cercare nella lotta armata le “responsabilità” segrete del Kgb, così come quella “di sinistra” le aveva cercate nella Cia o nei “servizi deviati”.

Ora hanno fatto pace e quindi la versione ufficiale diventa: ci sono dei misteri, non ci conviene risolverli, ma va bene così. È un accordo politico che guarda soprattutto al futuro, più che al passato. Misteri sull’organizzazione comunista che ha “messo paura” al potere politico in Italia non ce ne sono da un bel pezzo, sul sequestro Moro neppure. Sappiamo chi erano gli uomini e le donne della mattina del 16 marzo 1978, chi ha gestito l’operazione e chi ha sparato (anche al presidente della DC). Sono stati gli stessi protagonisti a dichiararlo. Se qualche magistrato intoccabile (Caselli, Imposimato…) si diverte ancora a spargere fumo, contribuisce solo a irrobustire la sagra dell’assurdo.

Non era questo l’ambiente in cui ha navigato Prospero, contadino orgoglioso delle proprie origini, che ha “studiato di notte”, rubando ore al riposo dopo il lavoro, per migliorare la propria conoscenza. Per come ha interpretato la dimensione del “collettivo”, del fare insieme, dell’assumere ruoli di direzione soltanto perché “qualcuno deve pur farlo”, mantenendo sempre quel distacco autocritico che consiste nel non darsi individualmente troppa importanza. È qualcosa che oggi appare difficile persino da raccontare, figuriamoci a spiegarlo. Il contadino che si guadagnò attestati di stima, serietà e correttezza dal presidente della corte che lo condannò all’ergastolo (Severino Santiapichi) e dai nemici veri, quelli che si sono combattuti sul serio, come Francesco Cossiga, Indro Montanelli e lo stesso Aldo Moro.

Anche nelle ultime interviste appare evidente questo lato della sua cultura umana e politica. E’ il suo contributo alla politica comunista anche dopo la sua morte, che sapeva poter arrivare in qualsiasi momento. Un contributo riconosciutogli ben oltre i confini nazionali, come testimoniano i messaggi di cordoglio arrivati dall’America Latina e dalla Palestina occupata.

Carlo Curti, Lugano