[fdm] A me Carlo Curti, opinionista non vicinissimo alle mie idee, piace. E lo rispetto, anche, perché non ha paura di scrivere apertamente quello che pensa. Debbo però ammettere che lo considero anche il campione del mondo dell’arte di spararsi in un piede. Prendiamo questo suo frammento: “in silenzio perché dei meriti dei perdenti non è conveniente parlare”.
Vogliamo, molto semplicemente, domandare al nostro Ospite: chi e che cosa ha trasformato questi uomini, questi tedeschi (che non erano dei selvaggi con la sveglia al collo) in irrimediabili perdenti?
Il prossimo 3 ottobre sarà il 23° anniversario della riunificazione tedesca e certamente a Berlino non ci saranno adunate oceaniche per ricordare l’evento. Anche nel 1991 la folla convenuta in città per festeggiare il primo anniversario della Germania unita non era raggiante. Un cartello in mezzo a un folto gruppo di giovani denunciava: “Ich habe meine Heimat verloren und nicht wiedergefunden!” Ho perso la mia patria e non ne ho trovata un’altra! Chissà dove saranno quei giovani oggi; saranno riusciti a fare quanto prima era loro burocraticamente impedito, si saranno realizzati professionalmente o tireranno avanti con lavori precari tra un collocamento e l’altro? Il dubbio è quanto mai lecito nonostante la Germania continui ad essere la locomotiva d’Europa con tassi di disoccupazione contenuti. Lo dicono le statistiche ufficiali, quelle che, ormai lo sanno quasi tutti, sono come i bikini; fanno vedere molto ma nascondono l’essenziale.
Già, l’essenziale che è invisibile agli occhi. Quelli della ex DDR sono stati cancellati dalla memoria del paese e usati per anni, dentro i confini nazionali, come poi tutta l’Europa ha fatto con gli extracomunitari; forza lavoro a basso costo e per di più ad alto valore aggiunto. La grande Germania ha potuto continuare ad essere tale facendo leva proprio sui cugini dell’est; in silenzio perché dei meriti dei perdenti non è conveniente parlare.
Poi ci sarebbero i milioni di tedeschi caduti in miseria per svariati motivi legati proprio al repentino cambio di regime. Cito parte di una lettera indirizzata all’ex cancelliere Kohl da Detlev Dalk, capogruppo al Bundestag del “Neues Forum”, proprio il movimento DDR che dette il via alle manifestazioni di piazza che accelerarono la caduta del muro. Dice più o meno così:” Nella DDR ci sono centinaia di migliaia di persone che sono riuscite ad acquistare una vecchia casa senza essere funzionari del regime né spie della STASI. L’hanno fatto lavorando sodo e risparmiando ogni marco. Ora, in base ad un diktat della Germania Federale, i vecchi proprietari(e i loro eredi) a quaranta anni di distanza da quando è stata loro espropriata, possono farsi restituire la casa e ottenere l’affitto arretrato da chi le ha abitate…” Non si conosce la risposta di Kohl ma la fine che fece Dalk: suicidio, alla maniera dei bonzi vietnamiti, come estrema protesta per una legge infame che ha ignorato tutti i buoni propositi di riconciliazione a pari dignità tra le due vecchie repubbliche.
Non sono pochi quelli che continuano a tenere duro, a non rinnegare una parte importante del proprio passato; testimoni di una storia finita ma non inutile. Come il signor Siegfried Rataizik, capo della prigione Hoehenschoenhausen della STASI dal 1951 al 1990, che liquida come chiacchiere l’accusa che lui e i suoi uomini punissero i dissidenti con gli stessi metodi usati dai nazisti.
Così un giorno, quando ormai la prigione era diventata un memoriale, si è confuso fra le visite guidate assieme ad altri ex compagni del Ministero e a gran voce hanno accusato di calunnia le guide che raccontavano dei brutali atti compiuti negli scantinati del penitenziario ai tempi della DDR. “Qui non si è mai torturato nessuno, si seguivano soltanto le direttive ufficiali del Governo, non abbiamo fatto niente di male e quello che viene raccontato sono solo menzogne”. Da quella volta ha il divieto di entrare nella struttura.
Con i suoi ex compagni di lavoro ha anche pubblicato un libro di memorie “La stanza degli orrori del dottor Knabe”, dal nome dell’attuale direttore del museo. Racconta di aver trovato lettere d’insulti nella buca delle lettere e delle visite di ex detenuti al suo domicilio. Ha conservato le prime e fatto entrare i secondi per dare le sue spiegazioni. Tuttora gli capita di viaggiare per tenere conferenze, anche all’Ovest, a 82 anni suonati e con la moglie disabile per un ictus. Percepisce una rendita di 800 euro al mese, ma di soldi non vuole parlare. Preferisce dire della soddisfazione che prova quando osserva da vicino il capitalismo reale, la crisi delle banche, del lavoro, i guadagni sulla pelle dei malati e conclude: “Quelli che allora reclamavano la libertà di viaggiare e che hanno mandato a picco la DDR, adesso non hanno neppure i soldi per andare a lavorare all’estero”.
Non voleva vivere nel capitalismo e adesso lo fa perché è costretto. Anche per questo forse il concetto di “libertà” non gli fa venire in mente niente di positivo. Lo stesso vale per quello di “democrazia”. Siegfried Rataizik è attivo nell’associazione “Società di sostegno giuridico e umanitario” che in una nota informativa si è indignata del fatto che nella Germania riunificata si permetta alla direzione di un museo di vietare l’ingresso ad ex dipendenti per impedire la diffusione d’informazioni sulla carcerazione preventiva non in linea con la versione dominante.
Scherzi della Storia: Dopo circa un quarto di secolo i federali si beccano le stesse accuse che una volta toccavano ai burocrati del socialismo reale tedesco.
Carlo Curti, Lugano