Libera traduzione della lettera inviata da Tito Tettamanti a Iso Camartin e pubblicata abbreviata in alcuni punti sulla “Schweiz am Sonntag” del 09.11.2014

(francesco de maria) Per l’avvocato Tito Tettamanti la questione del rapporto Svizzera-UE è oggi la prima delle questioni, senza rivali. Ad essa egli dedica questa lunga lettera dai contenuti profondi e a lungo meditati. Indirizzata a chi? A un uomo, un intellettuale, un filosofo che ha firmato il famoso “Appello dei Cento”, il professor Iso Camartin. (Ed è il momento di ricordare che Camartin, con altri due relatori, interverrà a una conferenza dell’Associazione Società Civile della Svizzera Italiana martedì 18 novembre, ore 18, all’Hotel Dante).

La Redazione intende suscitare un dibattito “attorno” a questo documento importante e a tale scopo solleciterà i contributi di esponenti di primo piano del mondo politico e culturale.

Non è un testo facile e non è un testo breve. Ma, credetemi, ne vale la pena!

TTTITO TETTAMANTI

Signor
Prof. Dr. Iso Camartin
Ekkehardstrasse 8
8006 Zurigo

Caro Iso,

Ho apprezzato che in qualità di cittadino ed intellettuale ti sei sentito in obbligo di partecipare al dibattito relativo ai rapporti tra Svizzera e Unione Europea. Non penso di esagerare affermando che il risultato di questo dibattito potrà essere determinante per il destino futuro del nostro Paese.

È apprezzabile pure che alcune personalità confederate come te abbiano preso posizione in un appello pubblico. Vi saranno sicuramente parecchi commenti e prese di posizione al proposito. Dal canto mio vorrei trasmetterti in forma di lettera le mie riflessioni sulle “quattro forti ragioni per un’Europa solidale“ che vengono analizzati nell’appello.

1. La storia e la pace

Il merito storico dei tre uomini di Stato europei che 60 anni fa hanno deciso “niente più guerra” è indiscutibile. La magistrale opera di Tony Judt sulla storia del dopoguerra (“Postwar. A History of Europe Since 1945”) ci dà un quadro preciso della spaventosa situazione nella quale l’Europa si trovava dopo il 1945. Chi legge questa impressionante descrizione (e come me ha dei ricordi di quel tempo) non può che valutare l’importanza e la necessità della decisione presa.
Sarebbe per contro errato dimenticare che viviamo oggi nel ventunesimo secolo con premesse diverse per la situazione di pace e senza errate idealizzazioni.

Anzitutto è storicamente non corretto affermare che in Europa abbiamo avuto 70 anni di pace. Gli europei tendono a dimenticare la ex Jugoslavia con le sue guerre. Ciò dipende probabilmente anche dal fatto che il conflitto è stato concluso grazie agli interventi degli Stati Uniti e specie del Presidente Clinton (con il suo rappresentante Richard Holbrooke). Sfortunatamente non grazie alla allora Comunità Europea.

Chi vuol comprendere l’attuale situazione di pace nell’UE dovrebbe leggere il libro “The Post-Moderne State and the World Order” di Robert Cooper, un diplomatico inglese che è stato anche il vice di Xavier Solana. Per Cooper l’anno 1989 segna la fine del “balance of power system” in Europa e lui divide gli Stati in tre categorie: i postmoderni come quelli dell’EU, i premoderni come Somalia o Afghanistan e i moderni, la maggior parte degli Stati asiatici. I postmoderni, quelli che a noi interessano, hanno capito che guerre combattute militarmente costano troppo e l’occupazione di territori nemici rappresentano uno spreco di mezzi e forze. L’idea che possa essere interessante conquistare un territorio straniero con la forza, è oggi totalmente superato.

I grandi Stati dell’EU non sono più in grado di fare guerre, anche se lo volessero. Semplicemente non ne hanno più i mezzi finanziari, non hanno più gli eserciti popolari alla Napoleone, i cittadini di oggi non vogliono andare in guerra perché il tempo dell’eroismo è passato e viviamo in una società del low cost il cui sogno sono le vacanze a Pukhet. Sappiamo, ad esempio, che dei 254 aerei da combattimento dell’aeronautica germanica 150 sono fuori uso. La notizia per uno come me che ha seguito l’ultima guerra mondiale da lontano quale bambino e adolescente svizzero, è senz’altro una buona notizia. Ci permette anche di capire perché l’allora ministro Steinbrück voleva invaderci con la cavalleria…

I meriti storici dell’UE come progetto che ha portato la pace sono importanti e corretti, ma la situazione di oggi è la conseguenza del 1989, la conseguenza della politica di interessi attuale, e anche del fatto che mancano soldi e uomini per una guerra tradizionale. Gli attuali conflitti nell’UE, il confronto tra il rigore germanico e le paure dei comodi e sovraindebitati Stati, sono per contro un’espressione della guerra moderna con i mezzi dell’economia e dell’informazione. Conosciamo la guerra europea contro la piazza finanziaria di Londra, conosciamo la guerra economica nei confronti delle banche svizzere, la cui strategia di difesa conferma che il benessere può rendere pigri.

Al posto delle cannoniere, i politici di oggi usano le soft laws del G20 o lo zelo del signor Gurria, presidente dell’OECD. Le informazioni vengono utilizzate e abusate a piacere secondo i propri interessi strategici e i media si limitano spesso a fare da megafono alle dichiarazioni ufficiali. Con l’aiuto dei media un cartello di Stati ad alta tassazione è riuscito a convincere molti cittadini che il sovraindebitamento degli Stati è una diretta conseguenza dell’evasione fiscale. Se tutti avessero pagato le proprie imposte correttamente, questo è il racconto, i governi non avrebbero seri problemi finanziari e anche la crisi bancaria sarebbe stata gestibile senza aiuto statale. Ovviamente è una frottola. Fattualmente e in verità, la rapida progressione del debito pubblico in Europa ha avuto inizio già negli anni ’70. Secondo l’OECD, negli ultimi cinque anni sono stati recuperati 37 miliardi di euro sottratti al fisco. Se si paragona questa cifra alla massa di migliaia di miliardi cumulati dal debito pubblico delle diverse nazioni, la cifra è ridicola. Germania, Francia e Italia hanno cumulativamente più di 6.000 miliardi di euro di debito pubblico (senza aggiungere le passività nascoste). Quandanche i tre Stati potessero aver incassato 60 miliardi di imposte in più, questa somma non rappresenterebbe che un modestissimo 1% del gigantesco buco.

Secondo me, caro Iso, possiamo concludere che: la pace è estremamente importante. La guerra, però, sul Continente europeo oggigiorno non avrebbe più luogo anche senza l’attuale UE. Oggi vi sono le guerre economiche anche tramite la guerra dell’informazione e della disinformazione. Perciò, concludo, dire che l’attuale UE = pace, non è un punto determinante per i cittadini svizzeri per dichiararsi pro o contro l’entrata nell’UE.

2. I valori: lo Stato democratico

Ci sono diverse forme di democrazia, come tu ben sai. Negli Stati dell’UE il modello esistente è quello della democrazia rappresentativa. La Svizzera, unico Paese in Europa, conosce per contro la democrazia semidiretta. Questo punto, a mio parere, è il più importante di tutto il dibattito, dato che l’UE con gli Stati membri da un lato e la Svizzera dall’altro non sono compatibili né dal punto di vista istituzionale, e conseguentemente da quello culturale.

La democrazia rappresentativa ha in se un elemento oligarchico temperato unicamente dalle ricorrenti elezioni. Sostanzialmente il potere, vale a dire la conduzione degli affari dello Stato, per una legislatura viene affidato a una classe di politici. Questi possono relativamente “fare e disfare”. Purtroppo, questa divisione di compiti negli ultimi decenni è degenerata, ciò che preoccupa sempre più i cittadini. I politici di professione eletti, indipendentemente da Paese e partito, hanno formato una casta che si preoccupa innanzitutto di proteggere i propri interessi e privilegi e ciò da tempo al di la degli apparenti contrasti tra governo e opposizione. Di conseguenza appare in modo sempre più significativo una frattura tra cittadini e politici di professione, accompagnata da una preoccupante perdita di reputazione e immagine della classe politica.
Non penso che io debba provare le mie affermazioni. Basta leggere i giornali italiani, francesi, come pure inglesi e tedeschi (questi ultimi con toni più soffici) per rendersene conto: corruzioni, appropriazioni indebite, falsificazioni, creazione di posti fittizi, condanne penali, abuso di beni e servizi pubblici, sono all’ordine del giorno. Contemporaneamente, i partiti di massa perdono costantemente voti e tentano di rimanere al potere con sempre maggiori concessioni a corporazioni ed elettori. Simili promesse e concessioni sono costose. Hanno portato lo Stato assistenziale, che promette ad ogni singolo gruppo uno stato sociale personalizzato, in una situazione che non lascia più alcun margine di manovra. Le spese sociali salgono nei confronti del PIL in modo sproporzionato. Le imposte elevate e l’indebitamento degli Stati gravano tanto i cittadini che gli operatori economici. Praticamente, il cane si morde la coda.

Nel mezzo di una UE il cui modello sociale ed economico viene sempre più messo in discussione, troviamo una Svizzera che ha pure problemi, ma con una ben maggior solidità. Notiamo: un minore debito pubblico, imposte relativamente inferiori, un’amministrazione più efficiente, una molto minor disoccupazione (e disoccupazione giovanile), un maggior livello di formazione, un sistema sanitario migliore, una previdenza più affidabile. Come mai la Svizzera sta meglio degli Stati EU? Penso, ed al proposito ritengo che tanto gli svizzeri che i non svizzeri siano d’accordo, che il controllo da noi esercitato sui politici nella nostra democrazia semidiretta rappresenti il vantaggio concorrenziale determinante in quanto impedisce che in Svizzera si costituisca una casta politica.

Evidentemente alcune decisioni dei cittadini nelle votazioni e referendum può irritare l’élite politica, amministrativa e economica. Vero, talvolta anche la pancia gioca un ruolo importante nelle decisioni. Io stesso avrei preferito recentemente che le cose fossero andate in un altro senso (ad esempio divieto ai minareti), ma questo non è il punto determinante. Lo è per contro che le élites sono obbligate continuamente a dibattere e a rendere conto ai cittadini di quanto fanno. Proprio per ciò in generale il risultato mi pare rallegrante. L’assennatezza della maggior parte dei risultati delle votazioni degli ultimi decenni è a ben vedere sorprendente e positivo. Se noi non conosciamo i Beppe Grillo o i partiti di protesta senza programma e cultura a livello federale, lo dobbiamo anche alla nostra democrazia semidiretta. Il nostro sistema non è perfetto, e il volere popolare non è volere di Dio. Dobbiamo però senz’altro ritenerci fortunati con ciò che abbiamo.

Ovviamente, non possiamo pretendere che l’UE e i suoi Stati modifichino la loro cultura e le loro istituzioni per facilitarci la vita. Da ciò, caro Iso, discendono le due domande cardinali alle quali dobbiamo rispondere. Siamo pronti di rinunciare al nostro sistema democratico? In caso contrario, quali sarebbero i corrispondenti costi economici? Questo è il punto focale del nostro dibattito sul quale dobbiamo finalmente e onestamente dibattere.

3. L’interdipendenza e il grande mercato continentale

Nell’appello da te firmato l’euro viene dipinto come una conquista. Vedo la cosa in modo diverso. L’euro è secondo me il migliore esempio che Bruxelles è pronta per non confessate considerazioni politiche ad assumere grossi rischi senza tener conto seriamente delle conseguenze per i Paesi e i cittadini.

In buona coscienza posso ripetere la tesi che ho difeso in diversi dibattiti negli anni ’90. Una moneta comune in uno spazio economico e in Stati così diversi non può che essere foriero di una crisi. A mio modo di vedere, il peggio nell’introduzione dell’euro consiste nel fatto che gli intelligenti tecnocrati di Bruxelles (e alcuni politici che speravano di poter rovesciare lo stato pietoso delle loro finanze sulle spalle dell’UE) hanno senz’altro anticipato e contato su una crisi. Speculavano in una crisi per poter far progredire l’unione politica e ciò è scorretto. La crisi è venuta, ma si è rivelata molto peggiore di quanto i tecnocrati si aspettassero. Ciononostante insistono ugualmente per un “più Europa”, vale a dire maggiore unione politica. Ricordiamo solamente: dopo sette anni di crisi, nell’Unione europea vi sono ancora 25 milioni di disoccupati. L’ammontare del debito pubblico è gigantesco, l’UE si trova a confrontarsi con la peggior crisi della sua storia. Nonostante ciò, invece di pensare a come riformarsi strutturalmente, non vuole altro che progredire nell’unione politica. Un tale atteggiamento mi sembra irresponsabile nei confronti dei cittadini europei che hanno riposto speranze nell’UE.

All’inizio dell’UE vi è stato anche il mercato comune che senz’altro è un’importante conquista. Puoi pensare che nella mia qualità di convinto sostenitore dell’economia di mercato io sono per mercati che possono funzionare senza dogane e ostacoli nell’interesse dei consumatori. Ho sempre affermato che considero l’UE una “Fehlkonstruktion”, ma per un’unione economica ci sono anch’io.

Mi sembra importante, però, essere precisi. I tecnocrati sono spesso molto pragmatici nell’uso di concetti e i burocrati di Bruxelles, molto abili nell’utilizzo di parole che vogliono dire il contrario di quanto ufficialmente affermato. Entrambi usano in modo soft e generoso il termine di armonizzazione, ma pensano l’esatto contrario, vale a dire uniformità e centralizzazione. Perciò mi chiedo: di quale mercato comune parliamo qui? Solo di passaggio vorrei sottolineare la mia coerenza a questo proposito: nel 1994 ho pubblicato un libro il cui titolo era “Quale Europa? Una sfida di fine secolo”.

Parliamo di un mercato comune conformemente a Adam Smith o in consonanza con il mercantilista Jean Baptiste Colbert? Non si tratta di giochetti intellettuali, ma di una fondamentale distinzione la cui chiara illustrazione è un obbligo di onestà intellettuale.

Stando ad Anthony de Jasay, quando Adam Smith parla di mercato pensa a uno spazio di scambi liberi senza lacci e ostacoli burocratici. Ognuno deve essere libero imprenditorialmente di operare e l’onere della prova del suo comportamento scorretto compete alle autorità. In breve, ciò che non è esplicitamente vietato è permesso. Una probatio diabolica sempre più in auge nel campo delle imposte, non sarebbe possibile. Per i colbertisti, per contro, vale il credo “il permesso autorizza i fatti”. I permessi vengono dall’alto, si necessitano sempre più leggi che regolano il nostro comportamento e il sospetto universale è la situazione di base, vale a dire ciò che non è esplicitamente permesso, è vietato.

Si deride spesso lo zelo dei burocrati UE che vogliono fissare le esatte dimensioni di cetrioli, delle banane, dei piselli o dei preservativi. Simili norme non sono semplicemente il sintomo di micragnosità burocratica, ma l’espressione di un atteggiamento intellettuale la cui logica ha tenuto a battesimo il mercato comune, vale a dire la tendenza ad un numero di leggi, regolamenti, regole nelle quali non riusciamo più ad orientarci, che regolano tutto in modo minuzioso e ostacolano e limitano la libertà di commercio.

Ma chi è il vero nemico dei burocrati UE? Unicamente il proprio cittadino e consumatore del quale non ci si fida? Oppure lo sono anche i consumatori e operatori economici stranieri? Cito qui una frase di un contributo apparso il 25 ottobre sulla NZZ per la penna del redattore Beat Gygi, la cui lettura, caro Iso, ti raccomando: si tratta “…non solo di libero mercato. Contemporaneamente il mercato interno è stato corredato con una serie di regole centralizzate che limitano la concorrenza tra sistemi nazionali e proteggono l’intero spazio verso l’estero mediante dogane e barriere in modo tale che gli esterni o i partner commerciali hanno accesso solo selettivamente e pagando esosi pedaggi”. Il super regolato e centralizzato mercato comune UE (e unione politica) come fortezza verso il resto del mondo aspirano a ciò i sostenitori dell’UE che dovrebbero essere aperti al mondo?

4. L’Europa nel mondo

Gli autori dell’appello sottolineano, e con ciò arrivo all’ultimo punto, che gli Stati europei sono dei modesti giocatori in un grosso gioco diventato globale. Logicamente concludono, solo una presenza coordinata può permettere di venir ascoltati nella cacofonia internazionale. Venir ascoltati ma per chi? Per la Francia o la Germania che in tal modo possono parlare anche in nome di altri Stati e avere con ciò maggior peso?

Vorrei evocare una scena degna di essere ricordata: durante una passeggiata in una sera d’ottobre dell’anno 2010 a Deauville, Angela Merkel e Nicholas Sarkozy hanno cambiato gli accordi UE e con una semplice telefonata hanno mandato a casa i diligenti ministri delle finanze che erano riuniti quella sera a Strasburgo. È questa la coordinazione? Possono esserci ottime ragioni per idealizzare la struttura UE. La realtà, però, non dovrebbe venir totalmente dimenticata.

La signora Merkel ha affermato che l’Europa rappresenta a livello mondiale il 7% della popolazione, il 25% dell’economia e il 50% dell’assistenza e della previdenza sociale. Il punto però è (e la signora Merkel lo sa) che le cifre in pochi anni cambieranno. La popolazione scenderà sotto il 5%, l’economia verso il 15%, la previdenza sociale resterà ai livelli noti fino a quando potremo avere l’illusione di finanziarla con ulteriori debiti.

Da questo punto di vista una Unione europea aperta e flessibile (con una articolazione di posizioni anche nei confronti della Svizzera) è senz’altro migliore di una organizzazione burocratica e centralizzata come quella odierna. Nell’appello da te firmato si parla di coordinazione. Si tratta di un termine che alla fine vuol dire il contrario di ciò che dovrebbe essere. Altrimenti chiesto: la crisi è la conseguenza di responsabilità di singole azioni statali, o della confusione delle responsabilità? Credi veramente che gli Stati del nord dell’UE saranno d’accordo con una coordinazione che per loro vuol dire minore sussidiarietà, minore concorrenza dei sistemi? Come reagiranno svedesi, danesi, finlandesi allorché i loro colleghi di Francia e Italia vorranno “europeizzare” i debiti tramite anche un allentamento dei criteri di indebitamento? Anche gli Stati sovraindebitati hanno delle frecce al loro arco. Matteo Renzi, il furbo presidente del Consiglio italiano, ha già anticipato che se si sarà troppo critici con l’Italia, potrebbe iniziare una campagna per gli sprechi dell’Unione europea (e ce ne sono molti). Coordinazione è una bella parola, temo però che non conduca alla chiarificazione, ma al contrario al massimo della confusione.

La risposta dell’élite di Bruxelles è nota a iosa. Importanti traguardi politici giustificano mezzi duri e dolorosi. I cittadini degli Stati UE nel frattempo sono stanchi di sempre sentire questa solfa e si domandano: se le economie dei Paesi euro dopo sette anni di crisi al contrario di USA e della Gran Bretagna che si sta riprendendo continuano a soffrire, non potrebbe ciò essere anche responsabilità di Bruxelles?

Considerazioni simili a quelle dell’euro possono venir applicate anche a Schengen (per il quale mi pento di aver votato). Si è voluto imporre una soluzione politica per la migrazione intereuropea, senza riguardo alle diverse situazioni dei diversi mercati del lavoro e dei diversi sistemi previdenziali. Con ciò, anche se non voluto, ma conseguentemente alla politica dominante, si è creata la nuova forma del turismo assistenziale. Il fenomeno ha già creato tensioni tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea ma altri conflitti si designano sul territorio del Continente europeo. In considerazione di ciò, è abbastanza singolare che la maggioranza dell’élite svizzera politica, diplomatica e amministrativa cerchi continuamente di scusarsi nei confronti dei politici dell’UE per il risultato della votazione del 9 febbraio. Se italiani, francesi, tedeschi o inglesi dovessero oggi votare sullo stesso tema, voterebbero come gli svizzeri, solo con maggioranze più elevate. Concludendo, caro Iso, sarai d’accordo con me: non si può far politica cercando scuse nei confronti delle preoccupazioni e problemi dei cittadini.

Qui faccio un punto e mi limito a commentare la prima parte dell’appello da te sottoscritto. Concedimi due considerazioni a conclusione.

La prima. Il problema del futuro dei bilaterali è sempre presente nell’appello. Mi augurerei che finalmente studi seri possano chiarire cosa ci verrebbe a costare se l’UE dovesse disdire gli accordi bilaterali. Per contro, quale sarebbe il prezzo per l’UE? Ho il dubbio che il nostro atteggiamento nei confronti dei bilaterali sia determinato dall’ignoranza di dettagli e anche dal fatto che sopravvalutiamo le preoccupazioni degli attori direttamente interessati. Interessi particolari sono legittimi e degni di protezione, debbono però sempre venir considerati in relazione agli interessi generali.

Ultimamente, ho notato una riflessione di Ruedi Noser, imprenditore, parlamentare da molto tempo e presidente della Commissione economica. Afferma che i bilaterali oggi non hanno più l’uguale importanza di vent’anni fa e che in caso di disdetta la Svizzera non affonderebbe. Riassumendo: una situazione senza bilaterali sarebbe un problema, un problema però risolvibile (con un prezzo da determinare).

Dinanzi a questa prospettiva c’è l’atteggiamento del Consiglio federale e dell’Amministrazione federale diametralmente opposto, in quanto considerano i bilaterali come necessari alla sopravvivenza della Svizzera. Se fosse davvero così, è ovvio che la Svizzera entra in trattative molto indebolita. La mia esperienza mi permette di affermare che anche in questo caso la tattica gioca un ruolo più importante di quanto ammesso da entrambe le parti. A un attento osservatore non può sfuggire ciò che il ministro degli interni germanico Thomas de Mazière ha pronunciato al suo recente incontro con la Consigliera federale Sommaruga: “ci impegneremo per trovare una soluzione”. Ciò suona molto diverso dalle legnose e rigide esternazioni della Centrale di Bruxelles.

Un’ultima osservazione: mi ha disturbato nell’appello da te firmato che gli autori non hanno la sincerità di affermare senza veli ciò che essi francamente vogliono, vale a dire aderire all’UE [grassetto della Red].

Caro Iso, dobbiamo essere d’accordo che i tempi dei calcoli, dei sotterfugi per ottenere qualche voto in più o in meno o per non offendere la sensibilità di qualche compagno di strada, sono passati. È tempo di dibattere in modo aperto al di la di simpatie o antipatie personali. La Svizzera è a un punto di svolta e i cittadini debbono sapere quale prezzo comportano le loro decisioni, qualunque esse siano, per loro stessi e per gli altri.

Persone come noi, nella loro veste di cittadini attivi, hanno non solo il diritto ma anche il dovere di partecipare a questa discussione. Entrambi non rappresentiamo interessi particolaristici, associazioni o partiti. La discussione non deve venir influenzata da gruppi organizzati che pensano alla propria agenda per quanto essa legittima possa essere, come succursali all’estero, esportazioni facilitate, o difesa del proprio biotopo o ancora godere di eventuali privilegi. Ciò che conta è la voce del cittadino sovrano.

Nescio. Sappiamo che non sappiamo niente e che entrambi non siamo depositari della verità e che possiamo anche sbagliare. Tu poi come intellettuale devi lottare continuamente con il dubbio. Ti ho detto ciò che per il momento ritenevo di doverti dire. Capisco che la spontaneità e la fretta di questa lettera non giustificano possibili imprecisioni o incompletezze. Ritengo però che abbiamo sufficiente materia per esaminare criticamente e affilare le nostre posizioni. Abbiamo la fortuna di essere due cittadini indipendenti e sappiamo anche che i confederati avevano ragione dicendo humana stultitia et divina providentia regunt Helvetia. Per una volta anche noi agnostici dobbiamo fare un’eccezione.

Al prossimo incontro, un abbraccio,  Tito