L’elargizione di sussidi e la concessione facile della cittadinanza non è un motivo soltanto attuale. Fece già discutere sul finire dell’Impero Romano e probabilmente contribuì alla sua rovina.
di CHANTAL FANTUZZI
Nel 212 con la Constituio Antoniniana, l’imperatore Caracalla operò la concessione della cittadinanza a tutti gli stranieri che abitavano in territorio romano. Pertanto costoro divennero cives per il solo fatto di vivere entro le mura dell’Impero. Il papiro di Gisen, in greco, riporta infatti la delibera: “Credo di poter soddisfare la loro maestà [degli dei, ndr ] il più solennemente possibile se riporterò alle cerimonie religiose quegli stranieri che sono entrati tra i miei uomini. Pertanto dono la cittadinanza romana a tutti gli stranieri che abitano nel territorio romano, restando salda ogni sorta di organizzazione cittadina, con esclusione dei dediticii.” il motivo religioso e culturale, annesso alla maschera della magnanimità che ogni politico si assume al momento opportuno, asconde il vero fine, che lo storico Cassio Dione individuò essere nell’aumentare le entrate dello stato, estendendo l’obbligo di pagare le tasse sull’eredità anche ai nuovi cives (che prima del decreto erano peregrini).
Sant’Agostino commentò il decreto così: “in tal modo il privilegio di un piccolo numero sarebbe stato esteso a tutti”. La cittadinanza infatti, un onore e un onere, per tutta la storia di Roma, era stata riservata a una parte ristretta di cittadini, in quanto faticosamente conquistata. Dalla cittadinanza infatti dipendevano i diritti e i doveri di un cittadino, di una comunità e di un insediamento piuttosto che di una città. Una città era civitas (e di conseguenza i suoi abitanti erano cives) se ritenuta idonea in quanto dotata di strade, templi e tutte le costruzioni edilizie pubbliche che concernessero alla civiltà; poteva perdere o riottenere tale titolo, sempre previa esaminazione da parte di un delegato dell’Impero. La cittadinanza implicava quindi una condizione importante e onerosa, poiché se da un lato permetteva al cittadino di prendere parte alla vita pubblica di Roma, dall’altro lo obbligava a pagare le tasse.
La concessione era sempre stata calibrata e avara, basti pensare che gli abitanti delle colonie latine nella penisola italica (che erano chiamati alleati o socii) erano riusciti ad ottenere il riconoscimento di cives romani soltanto in seguito alla Guerra Sociale del 91-88 a.C. (nella quale combatterono, dalla parte dei romani, gli allora giovani e non ancor rivali Cesare, Cicerone e Catilina) scoppiata in seguito all’uccisone da parte dei dissidenti del tribuno Druso che aveva per l’appunto proposto la concessione della cittadinanza a tutti. In seguito a questa guerra, tutte le colonie, anche quelle precedentemente latine, erano passate sotto la giurisdizione diretta di Roma ed avevano ottenuto la cittadinanza.
Più tardi Cesare l’avrebbe estesa alle colonie della Gallia Cisalpina e poi Augusto, con la suddivisione in regioni, avrebbe attuato una maggiore coesione. Se la colonizzazione era quindi stata il “mezzo” per l’espansione di Roma, la concessione della cittadinanza divenne funzionale ad estendere, sempre con pacata meditazione, la romanità a tutti quegli uomini che condividevano gli stessi valori su cui si basava la Repubblica e su cui si sarebbe poi basato l’Impero, ovvero religione (almeno fino alla presa di potere del cristianesimo sul finire del III sec d.C., la religione tradizionale pagana era vista come coesione di valori fideistici e sociali), valori condivisi (e sanciti dai poeti, come la pietas, la concordia, l’amicitia, la virtus), economia (la società romana non era dissimile dal colonialismo.)
L’elargire cittadinanza da parte dei romani non significava tuttavia abbattere le frontiere: l’imperatore Augusto fu il primo ad istituire un corpo di legionari stanziati al confine per difendere le frontiere dell’Impero; più tardi l’Imperatore Adriano, seguito dal successore Antonio Pio, attuò la costruzione di lunghe mura che garantissero la protezione di coloro che vivevano entro l’impero e per evitare le invasioni e le scorrerie da parte dei barbari oltre la frontiera. (il più famoso di questi limes fortificati è oggi, in scozia, il Vallo di Adriano, seguito dal Vallo di Antonino, del quale però, a differenza del primo resta solo un terrapieno.) coloro che ricevevano la cittadinanza, erano fieri di far parte dell’impero e, qualora fosse necessario, di difenderlo.
La cittadinanza che Caracalla ora concedeva era invece vuota di ogni valore e significato poiché coloro che l’acquisivano non solo non si sarebbero mai sentiti completamente romani ma, al contrario, sarebbero stati fedeli fino alla fine alla loro identità. Perché dunque Caracalla attuò un provvedimento così lassista che gli procurò pure l’avversione dei tradizionalisti romani? La contestualizzazione di quest’imperatore, che agisce in una Roma ormai al tramonto, in principio di quelli che saranno i drammatici anni della crisi, è sorprendentemente attuale. Caracalla aveva coscienza della pericolosa minaccia alle frontiere rappresentata dagli Alamanni, che premevano per invadere l’impero, facendo temere a Roma la perdita degli Agri Decumantes , tra il Danubio e il Reno.
Li sconfisse sul Meno, sebbene i suoi avversari sostenessero che li avesse comprati. Attuò allora una politica di accondiscendenza, nei confronti dei barbari che minacciavano di far cadere Roma da un momento all’altro: elargì sussidi, in pratica pagando i germani purché non invadessero l’impero. La concessione di sussidi e privilegi fu assai deplorata dall’opinione pubblica tradizionalista romana, allarmata anche dall’apertura morale dell’imperatore nei confronti dei Germani (moda barbarica, integrazione nella società tradizionale della “novità” barbara). Era ormai divenuto un fenomeno dell’epoca, quello di rottura graduale con l’esclusivismo romano e italico, per aprirsi agli invasori, forse illudendosi che con il dialogo si sarebbe potuta evitare la catastrofe.
Buon soldato ma politico troppo accondiscendente, Caracalla finì i suoi giorni morendo pugnalato da un sicario, sulla strada di Edessa. Aveva soltanto dato inizio a quel processo, che forse già di per sé si sarebbe avviato, di decadenza di un mondo. Gli Alamanni non erano i soli a premere ai confini dell’impero, poiché circa un secolo dopo un’altra etnia quella degli Ostrogoti nell’attuale Ucraina e quelli dei Visigoti nell’attuale Romania, spinte dalla cavalleria degli Unni, oltrepassarono il Danubio, penetrando nell’impero che era allora degli imperatori congiunti Valente e Graziano. I governatori romani, con lo stesso precedente lassismo di Caracalla, consentirono loro di insediarsi stabilmente all’interno del territorio romano. E’ un processo noto e, ancora una volta, attualissimo. Coloro che fuggono da guerre, magari non causate da loro stessi, invadono un altro paese.
Da fuggiaschi diventano esuli, da esuli tuttavia divengono sempre più esigenti, fino a comportarsi come veri e propri invasori. Quella che stava avvenendo allora nelle zone di frontiera dell’impero romano era esattamente una sostituzione etnica, tramutatasi poi in rivolta degli stessi ospitati contro gli ospitanti. I Goti dapprima accettarono di essere insediati in terra straniera, poi, sostenendo di essere oppressi dall’amministrazione romana, si ribellarono. Sotto la guida del loro condottiero Fritigerio, saccheggiarono la quelle zone dell’impero corrispondenti all’attuale penisola balcanica. Nel frattempo nuove ondate di invasori germanici irrompevano al di qua del Danubio. L’imperatore Valente, che si trovava in quel momento in Asia, accortosi del pericolo, rientrò frettolosamente e decise di affrontare la crisi al più presto.
Chiamò alle armi i soldati di Roma, ordinando loro di proteggere un mondo ormai inesorabilmente giunto alla fine. Il di lui generale Sebastiano vinse a Beroe Augusta Traiana, in Tracia, facendo invano sperare conseguenti ulteriori vittorie. L’imperatore congiunto Graziano non mandò a Valente nessun rinforzo, forse per risentimento personale nei confronti del collega, Valente a sua volta forse attaccò battaglia troppo presto – per evitare che Graziano condividesse il merito di un’eventuale vittoria-. Fatto sta che le inimicizie politiche contribuirono al disfacimento dell’impero a scapito di nemici ben più pericolosi. Ad Adrianopoli, nel 378 Valente si lanciò alla testa delle sue truppe nel vano tentativo di fermare un’invasione già da troppo tempo in atto e da troppi volutamente sottovalutata.
I Visigoti reagirono lanciando contro il fianco dei Romani una carica di cavalleria che si trasformò in schiacciante vittoria. La cavalleria dei Romani fu costretta alla ritirata, la fanteria fu massacrata. Lo stesso Valente perse la vita in battaglia o fu preso prigioniero. Il suo cadavere non fu mai trovato. Sant’Ambrogio definì l’avvenimento catastrofico, come il “massacro dell’umanità, la fine del mondo.” (riflessione che, fatta da il più grande dei Padri della Chiesa, dovrebbe indurre coloro che oggi, in nome di un cattolicesimo travisato, si propongono favorevoli a un’accoglienza che altro non è che invasione mirante allo sfaldamento della società.) la sconfitta di Adrianopoli aveva fatto intravedere il termine, per mano dei Germani e degli altri invasori, di quell’ unica, vastissima parte di mondo allora civilizzata, anche se poi risultò che l’impero condannato alla distruzione sarebbe stato quello d’Occidente. (quello d’Oriente avrebbe resistito fino al 1453, quando sarebbe caduto per mano dei turchi.)
Appena trent’anni dopo i Goti di Alarico marciarono su Roma e tutto ciò che poté fare l’imperatore Onorio fu scrivere ai legionari stanziati ai confini dell’impero di rientrare per proteggere almeno la capitale. Ma ogni tentativo fu vano: dopo aver occupato Ostia a aver deriso l’eternità di un mondo ormai finito facendo coniare monete con la scritta INVICTA ROMA AETERNA, il 24 agosto del 410 Alarico penetrò nella Città Eterna che non oppose resistenza alcuna (forse speranzosa che l’ossequio l’avrebbe risparmiata dal saccheggio). I Visigoti saccheggiarono e occuparono la città che per ottocento anni non era mai stata violata da un nemico esterno. La stessa sorella dell’imperatore, Galla Placidia, fu fatta prigioniera e costretta sposare Ataulfo, un delegato di Alarico.
Un sessantennio dopo la fragile restaurazione attuata del mondo romano, l’impero crollò per mano di Odoacre che depose l’imperatore tredicenne Romolo Augusto, il quale, per ironia della sorte aveva il nome del primo re e l’appellativo del primo, grande imperatore. Quest’ultimo aveva difeso Roma e rafforzato i confini. Fino a che i successori avevano emulato i suoi provvedimenti, l’impero (corrispondente a grandi linee all’attuale Europa) aveva potuto vantare sicurezza e stabilità; quando a un certo punto avevano deciso (o si erano trovati costretti) ad aprire le porte agli invasori, Roma era crollata.
Partecipe di questi avvenimenti fu San Gerolamo, che, contrariamente a quanto potrebbe pensare chi erroneamente interpreta la bontà cristiana, in quegli anni scrisse un’intensa Consolatio nella quale enumerò tutte le calamità apportate dalle invasioni e dall’incapacità di fronteggiarle, forse causata dagli sterili risentimenti tra i romani stessi, ovvero quando il popolo è incapace di far fronte comune contro il nemico esterno.
“Inorridisce l’animo nell’enumerare le rovine del nostro tempo. Sono venti e più anni dacché tra Costantinopoli e le alpi Giulie scorre ogni giorno sangue romano. I Goti, i Sarmati, i Quadi, gli Alani, gli Unni, i Vandali, i Marcomanni mettono a ferro e fuoco il nostro impero. Quante matrone, quante vergini votate a Dio, quanti uomini liberi e nobili sono diventati ludibrio di queste belve! Sono stati catturati vescovi e preti e ministri d’ogni culto; sono state distrutte chiese, degli altari di Cristo son stati fatti greppie peri cavalli; (…) Rovina il mondo romano, ma noi cristiani non pieghiamo il capo. (…) Per i nostri peccati i barbari sono forti. Per le nostre colpe l’esercito romano viene vinto. (…) se vogliamo risollevarci dobbiamo prosternarci! Quale vergogna, quale incredibile follia! L’esercito romano, già vincitore e padrone del mondo, ora è vinto da costoro, teme costoro, è atterrito alla vista di costoro, che non nemmeno sono capaci di andare a piedi e quando scendono da cavallo si sentono perduti.” (Epist. LX, 16 – ad Heliodorum.)
Un quadro a fosche tinte estremamente contestualizzabile anche ed estendibile anche ai giorni nostri, ove l’inciviltà prende il sopravvento su un mondo che vanta secoli di civilizzazione e, cosa ancor più paradossale e triste, il fatto che siano gli stessi appartenenti al popolo invaso ad essere accondiscendenti all’invasione, ad acconsentire alla sostituzione etnica di popoli. Gli stessi governanti, ora come allora, pur consapevoli di un’Europa in balia della crisi sociale accettano di elargire sussidi e di abbattere quelle frontiere che per secoli hanno garantito la sicurezza interna, pur di avere un moralmente squallido tornaconto economico, attraverso le cooperative da loro stessi monopolizzati.
Non solo, il guadagno che essi traggono da quella che non è più un’immigrazione ma una sostituzione di popoli (irrispettosa ei confronti dei cittadini e degli immigrati regolari) sta anche in ambito elettorale. E se a caracalla interessavano le tasse, agli attuali politici filoimmigrazionisti più che le tasse, (agli immigrati irregolari sono consentite le esenzioni fiscali) interessano i voti. La Storia consegna. Sta al presente saper accogliere. E comprendere.