Daniele Trabucco

Nel luglio dell’anno solare 2021, Papa Francesco, pontefice per dodici anni dal 2013 al 2025, affermò pubblicamente che vaccinarsi contro il COVID-19 costituiva “un atto d’amore”. Una simile affermazione, pronunciata da un’autorità morale e spirituale di risonanza mondiale (non solo per i cattolici), merita una rigorosa analisi critica sul piano giuridico e filosofico. Anzitutto, è necessario ricordare che i vaccini allora disponibili nell’Unione Europea, come da Regolamento (CE) n. 507/2006 della Commissione del 29 marzo 2006, erano stati “rilasciati” con una “autorizzazione all’immissione condizionata”, cioè in base a dati scientifici incompleti, accettati solo in ragione dell’urgenza e sotto l’impegno vincolante dei produttori a fornire ulteriori evidenze sull’efficacia e sicurezza post-commercializzazione. Questo dato giuridico fondamentale mina alla radice la possibilità di elevare l’adesione vaccinale a obbligo morale, poiché la libertà di coscienza e il principio di precauzione risultano elementi strutturali non negoziabili. In una prospettiva filosofico-giuridica, la dichiarazione papale si colloca in un orizzonte morale che rischia di capovolgere i fondamenti della legge naturale classica, per la quale l’azione buona è tale solo se libera, informata e conforme all’ordine finalistico della natura umana. In quest’ottica, san Tommaso d’Aquino (1225-1274) insegna che nessuna autorità, nemmeno religiosa, può imporre un dovere morale laddove vi è incertezza oggettiva circa il bene.

L’atto d’amore non si determina per via di comando, né per conformismo sociale o pressione istituzionale, ma nasce dalla rettitudine della coscienza, che dev’essere rispettata, soprattutto nei casi in cui il bene comune è invocato in modo vago o ipotetico. Attribuire, pertanto, a una vaccinazione, soggetta a possibili effetti collaterali gravi e approvata in forma provvisoria, una qualifica morale assoluta significa violare sia il principio di proporzionalità, sia la dignità della persona come soggetto razionale e libero. Inoltre, l’idea che un atto sanitario individuale divenga obbligo morale per la salvezza collettiva introduce una concezione utilitarista della morale, estranea alla tradizione giusnaturalista, che riconosce il bene come ciò che perfeziona l’essere in quanto tale, non come ciò che massimizza un presunto interesse collettivo. La carità, virtù teologale fondamentale per il cristiano che resterá anche nella vita eterna, non si riduce a uno strumento di ingegneria sociale o a un’applicazione automatica di protocolli sanitari: essa presuppone la verità sul bene dell’uomo, che non può essere definita da logiche di emergenza o da ordini sanitari temporanei. Il rischio di un simile approccio, e va detto con grande chiarezza, è quello di scambiare l’obbedienza a un’autorità contingente per virtù teologale, e la conformità a una direttiva per atto d’amore, svuotando la morale della sua dimensione oggettiva e trascendente. In tal modo, la coscienza morale rischia di essere soppressa sotto il peso del consenso pubblico, e la legge naturale oscurata da un’etica funzionale, adattabile alle circostanze.

Prof. Daniele Trabucco (Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario “san Domenico” di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico).