Con queste note voglio assicurare a Massimiliano Ay, che l’esperimento di ave­re tanti laureati me­diocri è già riuscito in Italia, e sono in par­te disoccupati. L’on­da lunga delle medie facili ha raggiunto le Università, che ha sfornato migliaia di mediocri con titolo di studio. È una pena intervistare dei laurea­ti e dei periti che mancano di rigore e di ca­pacità di elaborazione, e vederli poi lavo­rare male.

Non pensi che sono un classista, che pre­diligo i laureati di famiglie benestanti. Al contrario, sia durante i miei studi e anche più tardi, partecipando a migliaia di as­sunzioni in 45 anni di professione, ho po­tuto constatare che la grande motivazio­ne di arrivare si sviluppa maggiormente nei ragazzi di famiglie non abbienti. E que­sta motivazione si manifesta ancor più quando, finiti gli studi, il laureato o diplo­mato deve farsi largo nel lavoro.

Vero è che la motivazione non basta quan­do non c’è una base di intelligenza me­dia,ma non credo che lei, nel suo interven­to sul CdT del 24 agosto, chiedendo di eli­minare i livelli, pretenda che il livello del­le scuole debba abbassarsi in modo da per­mettere di laurearsi ai pigri e ai poco do­tati, perché pigri o poco dotati possono es­sere sia i figli di operai che quelli dei ricchi. Il suo scopo «sociale» non sarebbe raggiun­to e si farebbe male a tutta la società e al­la economia. E, peggio ancora, sarebbe de­leterio per il carattere delle nuove genera­zioni.

La scuola degli anni cinquanta e ses­santa, che bocciava e faceva ripetere l’an­no, le esperienze successive degli adulti del­la mia età, vicina ai settanta, ci hanno for­giato alla vita difficile, al raggiungimento di obbiettivi importanti nella vita di tutti i giorni, e ci è facile fare dei paragoni col carattere,! molto più «morbido», che riscon­triamo in tanti giovani con cui lavoriamo. A volte si fatica a recuperarli ad una vita di lavoro seria e responsabile, lo conside­riamo un nostro dovere nelle nostre azien­de. Ma dobbiamo riparare ai guasti che certe scuole hanno fatto, l’abitudine al fa­cile risultato negli studi. Per fortuna mol­ti altri sono per natura concentrati sugli obbiettivi, veleggiano bene nella vita, in­dipendentemente dalla classe sociale di provenienza e dalle scuole mediocri.

Ma qui voglio arrivare, l’estrazione socia­le, se gioca un ruolo, non è quello da lei te­muto. Riescono i più intelligenti ma i più volonterosi vengono sovente dalle famiglie meno abbienti, che vogliono migliorare la loro condizione. E torniamo alla scuola, come credo la vorremmo entrambi.

Una scuola non deve essere classista e de­ve dare la migliore istruzione possibile. Di questi tempi, sempre più difficili e compe­titivi, è un obbligo ineludibile quello di pre­parare i nostri ragazzi a comportarsi al meglio nei mercati mondiali, sia che sia­no destinati ad attività di produzione o vendita, di servizi o di ricerca e sviluppo.

È quindi indispensabile non abbassare i livelli di difficoltà scolastica, ma alzarli. Lo sforzo «sociale» deve essere quello di aiutare tutti a superare le difficoltà di ap­prendimento, seguendoli negli studi se e quando ne hanno bisogno. Chi fortemen­te vorrà, ci riuscirà, solo i pigri non riusci­ranno e avranno il loro posto nella socie­tà. Ma non rendiamo tutto facile per tut­ti. Il rapporto PISA è un segnale d’allarme che tocca proprio il Ticino, dove il divario tra i migliori e i peggiori è esiguo (la famo­sa «equità»!), ma il livello è il più basso di tutta la Svizzera.

Da tutte le classi sociali arrivano alunni diversi per capacità e voglia di applicarsi, e hanno tutti, dico tutti, il diritto di avere una scuola di eccellenza, e, coerentemen­te, orientata ad aiutare chi ha delle diffi­coltà in quel momento. Ripeto, «in quel momento», perché a molti studenti succe­de di avere modi e tempi diversi per matu­rare, vi è chi è precoce e poi rallenta, e vi­ceversa. In America esistono i tutors, i tu­tori degli alunni,che sono lì per quello, aiu­tano gli studenti in difficoltà a compren­dere materie troppo difficili o a superare momenti psicologicamente difficili. Col vantaggio di valutare nei candidati in dif­ficoltà non solo la distanza tecnica dalle materie che devono apprendere e cercare di aiutarli, ma di capire se veramente si applicano seriamente, con la volontà di arrivare. Perché lì ci si confronta poi con la vita. Un cattivo ingegnere senza spina dorsale e profession! alità è una mina va­gante, così come lo sarebbe un medico, un giudice o un finanziere. Ad esempio, il cri­terio per assumere nelle aziende è quello di valutare nel candidato la onestà intel­lettuale come prima cosa, poi l’intelligen­za e solo per ultimo «quanto sa» del me­stiere che farà. Perché? Perché se è onesto e intelligente si adoprerà a colmare quelle eventuali lacune professionali, se ce ne so­no. A cosa serve, invece, un ingegnere lau­reato a pieni voti se è uno torpido medio­cre a cui la scuola ha reso la vita facile?

Mi associo, quindi, a volere che tutti arri­vino a saltare la asticella, ma mantenen­dola alta, dando a tutti un aiuto, econo­mico e didattico, per saltarla. Abbassare il livello della scuola uccide le nostre capa­cità di competere e non risolve un proble­ma sociale. Ne crea un altro enorme, una società di incapaci. E fra questi rammolli­ti ci saranno figli di papà e figli di famiglie meno abbienti. Con la differenza che i pri­mi potranno vivere bene anche da inca­paci, con i soldi di papà. Gli altri no.

Alberto Siccardi, imprenditore e vicepresidente di Area Liberale

Pubblicato nel CdT di lunedì 10 settembre